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In quanto ad assenza di chiarezza e confusione del lettore, il CAPO III "Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi", purtroppo, riesce a superare i precedenti. Non è solo l’effetto delle nomenclature dell’epoca! È proprio il contenuto ad essere decisamente incoerente ed errato!

I dittonghi raccolti e i dittonghi distesi
I dittonghi raccolti e i dittonghi distesi



CAPO III, Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi,
"I dittongi del nostro dialetto si dividono in propri ed impropri. I propri sono molti, e come nella lingua italiana si suddividono in distesi e raccolti. I distesi sono quelli che fanno sentire ambedue le vocali in maniera ch’e’ non appariscano quasi dittongi, come ancoa, àncora, peuxo, pernio o bilico, naixe, narici, beive bere, moesca, moresca, influî, influire, ecc. I raccolti son quelli che si pronunciano talmente uniti che la prima vocale perde molto di suono, e la seconda è principale, perché sovr’essa la voce si posa, come in ciave, chiave, viovetta, màmmola, cûggiâ, cucchiaio, ecc."

L’autore distingue tra dittonghi propri ed impropri.

Tra i propri classifica i dittonghi distesi e quelli raccolti.

Con definizioni piú moderne,
  • i dittonghi distesi, sarebbero i dittonghi discendenti (vocale + semivocale) come, ad esempio, /'ej/ in "meize" /'mejze/ (it. mese) o "peizu" /'pejzu/ (it. peso)
  • i dittonghi raccolti, quelli in cui, per usare le parole dello stesso Casaccia "la prima vocale perde molto di suono, e la seconda è principale, perché sovr’essa la voce si posa" sarebbero, piuttosto, definiti ascendenti (semivocale + vocale) come /'wE:/ in "cuæ" /'kwE:/ (it. voglia) o /'wa:/ in "guâ" /'gwa:/ (it. sorso).
    Se un dittongo è tonico l’accento cade sulla vocale, dunque nei dittonghi che il Casaccia chiama distesi l’accento si posa sul primo fonema, mentre in quelli raccolti l’accento cade sul secondo.

    Bene.

    Come esempi di dittonghi distesi (= discendenti) il Casaccia cita "áncua" /'aNkwa/, che non lo è perché è ascendente, "pœixu" /'pøjxu/, "náixe" /'najZe/ e "béive" /'bejve/, che sono tali, e "muêsca" /'mwe:ska/ e "influî" /iN'flwi:/ che non lo sono proprio perché "la prima vocale perde molto di suono, e la seconda è principale, perché sovr’essa la voce si posa"!

    In definitiva, 3 esempi sbagliati su 6... il 50%!

    Se a qualcuno può risultare d’interesse, relativamente all’antico folclore, la "muêsca", in italiano "moresca", non era un vero e proprio ballo, ma un "combattimento ritualizzato" eseguito da soli uomini, "popolani", dismesso per il dileggio dimostrato dai cosiddetti "borghesi" nei confronti di questi tipi di manifestazioni popolaresche.
    Estinta da assai tempo a Genova, esistono tuttora manifestazioni simili - estremamente rare, ormai - nelle zone alpine o nel Meridione.

    E fin qui...

    Come esempi di dittonghi raccolti (= ascendenti) il Casaccia cita "ciâve" /'tSa:ve/, "viüvetta" /vju:'vetta/ e "cygiâ" /ky'dZa:/. "Viüvetta" appartiene senz’altro a questa categoria. "Cygiâ" e "ciâve" invece non sono raccolti... e non sono neanche dittonghi!
    La "i" in "cygiâ" e in "ciâve" non è altro che un mero segno grafico per indicare la pronuncia palatale di "c" e "g" (/tS/ e /dZ/ , anziché /k/ e /g/), proprio come avviene nella grafia italiana (anche se in occorrenze diverse).

    Insomma ci coglie al 33%... 1 su 3, un po’ poco...

    Il dittongo /øj/

    Occasionalmente, il Casaccia, seppur con un po’ di difficoltá a livello di rappresentazione grafica, scrive anche affermazioni corrette e, per noi moderni, certamente interessanti.
    Egli distingue "êu" da "eu" ed appropriatamente definisce quest’ultimo "dittongo", sebbene adotti una grafia poco appropriata. Si tratta del poco frequente, ma vero dittongo discendente /øj/, che ricorre in un limitato numero di parole, molte delle quali oggi dimenticate.
    Il Casaccia cita quali esempi per questo dittongo le parole "peuxo" /'pøjZu/ e "beulo" /'bøjlu/.

    Il "pœixu" /'pøjZu/ è il "bilico" in legno al quale venivano connesse tramite tiranti metallici le campane.

    "Bœilu" /'bøjlu/ sarebbe, in genovese, la pronuncia corretta e regolare della parola corrispondente all'italiano "baule", ma le si preferí la forma piú italianizzante "báilu" /'bajlu/, sempre dotata di dittongo discendente. La forma /'bøjlu/ conobbe in cittá l’ostracismo sociale e non sopravvisse nemmeno tra le classi piú umili alla tragedia dell’ultima guerra mondiale. Le signore di Carignano, per altro, dicevano "bavyllu" /ba'vyllu/...
    Cosicché la cittá ebbe, per un certo periodo di tempo, 3 diversi stili di pronuncia per la stessa parola, corrispondenti a 3 diverse situazioni sociali.

    Nell'autentica lingua urbana genovese, questo raro dittongo discendente /øj/ compare anche nelle parole "rœitu" /'røjtu/ (it. rutto), "rœima" /'røjma/ (it. reuma), "murœidi" /mu'røjdi/ (it. emorroidi) e poche altre, tutte occorrenze note per lingua vissuta ad un numero di vecchi locutori, ormai, ristrettissimo.

    Il raddoppiamento dell'intensitá delle semivocali

    Lo stesso identico dittongo /øj/ è anche presente in vocaboli quali "serœjja" /se'røjja/ (it. segatura), "ciavœjja" /tSa'vøjja/ (it. serratura), "pelœjja" /pe'løjja/ (it. richiamo per uccelli), "mœjju" /'møjju/ (it. maturo) etc., nei quali esso si è venuto a formare a causa dell’eliminazione della erre palatale intervocalica.
    Si noti bene che in questo caso, poiché il dittongo é seguito da un'altra vocale, la semivocale/semiconsonante /j/ si comporta come una consonante a tutti gli effetti ed essendo preceduta da vocale breve raddoppia la propria intensità.
    Lo stesso raddoppiamento si verifica anche con gli altri 3 dittonghi discendenti della lingua genovese quando essi siano seguiti da una vocale:
    /aj/ - "majju" /'majju/ (it. marito), "östajja" /O:'stajja/ (it. osteria), "macajja" /ma'kajja/ (it. maccheria, tempo umido), "giancajja" /dZaN'kajja/ (it. biancheria)
    /ej/ - "sejja" /'sejja/ (it. sera), "vejja" /'vejja/ (it. vela), "peje" /'pejje/ (it. pere), "tejja" /'tejja/ (it. tela), "candejja" /kaN'dejja/ (it. candela)
    /Ow/ - "òwwa" /'Owwa/ (it. adesso), "fòwwa" /'fOwwa/ (it. favola), "tòwwa" /'tOwwa/ (it. tavolo), "u lòwwa" /u 'lOwwa/ (it. lavora)
    Risulta ovvio che quanto esposto si prefigge di chiarire e motivare l’evoluzione delle parole citate in cui i dittonghi risultavano ben isolati fino a quando si pronunciò l’erre palatale intervocalica, che fungeva da confine tra sillabe contigue.
    Attualmente, sotto un punto di vista puramente descrittivo e prescindendo dalle evoluzioni storiche subite dalle parole prese in esame, le occorrenze esposte, qualora si attribuisca valore consonantico alla /j/ ed alla /w/, possono essere assimilate alle altre parole della lingua genovese che presentano vocale breve e, di conseguenza, come la struttura della lingua genovese richiede, consonante successiva intensa.
    Secondo questo approccio descrittivo,
    "mœjju" /’møjju/ esibisce lo stesso comportamento di "nœtte" /’nøtte/ ,
    "majju" /’majju/ lo stesso di "mattu" /’mattu/,
    "tejja" /’tejja/ lo stesso di "tetta" /’tetta/, cosi’ come
    "u lowwa" /u ‘lOwwa/ - sotto questo aspetto – risulta comparabile con "u lotta" /u ‘lOtta/ etc...


    I dittonghi impropri
    I dittonghi impropri



    CAPO III, Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi,
    "Gl’impropri sono tre: æ, êu, ôu"

    Qui il lettore rischia veramente di perdersi...

    Nelle grammatiche scolastiche del greco classico l'antica definizione di dittongo improprio, stava ad indicare l'incontro tra una vocale lunga ed una breve. Questa è una situazione fonetica della quale anche la lingua genovese abbonda, ma, a parte l'antica accezione, questo incontro non é affatto un "dittongo", ma uno "iato" perché forma due sillabe distinte, mentre un vero dittongo forma sempre una sillaba sola. Dunque la definizione di dittonghi impropri proposta dal Casaccia non trova assolutamente alcun riscontro nella sua trattazione né negli esempi da lui forniti.

    Se, tramite la definizione impropri, il Casaccia intende stabilire che non si tratta di dittonghi, l’affermazione è corretta solamente per "æ" /E:/ e "êu" /ø/ - /ø:/, ma è falsa per "ôu" /Ow/ che, in genovese, rappresenta un dittongo discendente vero e proprio (e anche di elevata frequenza nella lingua!)

    CAPO III, Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi,
    "æ, cioè ae unite insieme, vale un’e lunghissima e strascinata, come: mæ, mio, mia bæga, briga, imbriægo, ubbriaco, parlæ, parlate, ecc.;"

    Il fatto che il grafema "æ" non possa costituire un dittongo è chiarito dalle stesse parole del Casaccia, vale un’e lunghissima e strascinata, rappresenta cioè una sola vocale di quantità lunga. Gli esempi citati, "" /'mE:/, "bæga" /'bE:ga/, "inbriægu" /iN'brjE:gu/, e "parlæ" /par'lE:/, confermano in pieno che non si tratta di dittongo (tranne che per "inbriægu" che in effetti ne contiene uno vero, il dittongo ascendente /'jE:/, semivocale + vocale. Questo dittongo era poco frequente nel genovese di registro popolare. Un tempo, nella parlata popolare, questo sostantivo veniva sostituito da "inbrægu" /iN'brE:gu/, senza la /j/, proprio per evitare un dittongo presente solo nelle coniugazioni verbali. Questa pronuncia veniva stigmatizzata dai borghesi ben parlanti.)

    CAPO III, Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi,
    "êu, che, per distinguere dal dittongo proprio eu, come in peuxo, beulo, ecc., si scrive coll’accento circonflesso sopra l’e, è dittongo francese e si pronuncia allo stesso modo che i francesi nelle parole feu, peu, heureux, così fêugo, fuoco, lêugo, luogo, dêutta, dote, ecc."

    Il Casaccia attribuisce caratteristiche di dittongo al grafema doppio "êu" e per di piú, definisce dittongo anche il grafema doppio "eu" della lingua francese. Entrambe le affermazioni sono palesemente errate. Per illustrare la pronuncia genovese il Casaccia cita, a mo’ di esempio, tre parole francesi: "feu", "peu" ed "heureux". Però, nelle parole francesi "feu", "peu" ed "heureux" non è presente alcun dittongo, cosí come non vi sono dittonghi nelle parole genovesi "fœgu" /'fø:gu/, "lœgu" /'lø:gu/ e "dœtta" /'døtta/ citate dall’autore.

    Le parole francesi "feu" /'fø/ e "peu" /'pø/ sono esempi linguisticamente appropriati, mentre "heureux" /œ'rø/, parola dalla grafia un po’ difficile per un italiano, è un esempio adeguato solo in parte. Esso infatti contiene sia il fonema /ø/ che é una vocale di timbro chiuso, propria anche al genovese, sia il fonema /œ/, che è la variante di timbro aperto di /ø/, ma che non appartiene alla lingua genovese. L’inventario delle vocali della lingua francese è infatti assai più ampio di quello della lingua genovese. Il francese possiede /ø/ (chiusa) ed /œ/ (aperta), cosí come possiede /o/ (chiusa) e /O/ (aperta). Solo 2 di questi 4 fonemi francesi fanno anche parte dell’inventario fonematico genovese: la /ø/ e la /O/, ovviamente, sia lunghi sia brevi, cioè /ø/, /ø:/, /O/ ed /O:/.


    CAPO III, Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi,
    "ôu vale o-u, ma pronunziato con somma prestezza e con tuono enfatico facendo posare la voce sopra l’u di pronunzia toscana, ma tronco, come sciôu, fiato, ballôu, ripiano, alluôu, stordito, ecc. Gli antichi invece si servivano del dittongo ao, scrivendo sciao, ballao, l’Abbao, l’Abate."

    L’accento circonflesso sovrapposto alla vocale "o" non si presta affatto a denotare il dittongo genovese /Ow/ in cui la /O/ (o aperta) è breve ("pronunziato con somma prestezza" per usare le parole dell’autore), mentre, sempre per il Casaccia, l’accento circonflesso dovrebbe indicare che la vocale cui esso é sovrapposto è lunga ("strascica la vocale a cui vien sovrapposto").
    Il dittongo genovese è, cioè, /'Ow/, e non /'O:u/, che, cosí pronunciato risulterebbe bisillabo!
    Tramite "ôu" si sarebbe dovuto grafare il trisillabo "tezôu" [te-zô-u] cioè /te'zO:u/, che in genovese non ha nessun dittongo. In realtà, il Casaccia, dal momento che adotta la lettera "o" per indicare anche il suono /u/ avrebbe dovuto grafare "tesôo", così come il dittongo "ou", a voler risultare conformi alle grafie "in O" andrebbe grafato "oo": infatti il fonema /O/ si scrive mediante il grafema "o" ed il fonema /u/ si rende tramite lo stesso grafema "o"...
    Il che la dice lunga sull’intrinseca inconsistenza delle grafie "in O", messa in evidenza da due fenomeni linguistici temporalmente distinti:
  • il più storicamente antico: la dittongazione di /'a:u/ in /'Ow/, da "cantao" /kaN'ta:u/ a "cantòu" /kaN'tOw/
  • il più storicamente recente: la caduta della erre intervocalica che causò la contiguitá di due vocali le quali però non formarono dittongo, come ad esempio in "tezôu" /te'zO:u/.
    Grazie all’italianizzazione, ormai quasi completamente conseguita, il problema non risulta piú essere di bruciante attualità, perché, ormai, quasi tutti in città dicono esclusivamente "tezôru" e davvero pochissimi rammentano ancora, per vita vissuta e non a motivo della consultazione degli antichi dizionari, la pronuncia "tezôu".

    A proposito di "tezôu" non si può non citare la "pietosa bugia" del Gazzo che, alla pag. XXI della "Illustrazione della chiave ortografica" premessa alla sua traduzione in genovese della "Divina Commedia" scrive:

    "N.B. la sineresi di oro si suole scrivere öu anziché öo : tezöu, möu, cöu"

    Forse, la "carità" facente parte del suo "ministero pastorale" gli fa trovare una "pietosa bugia" anche per giustificare l’anticlericale Casaccia.
    Ma, oggettivamente, scientificamente, si tratta di una bugia, cioè di cosa non vera.
    In "tezôu" non si applica alcuna sineresi, fenomeno linguistico tipico delle epoche in cui la poesia doveva sottostare al vincolo della metrica.
    Definita anche sinizesi, anch’esso derivato dal greco, essa indicava la situazione in cui due vocali, formanti normalmente uno iato, cioè 2 sillabe distinte, venivano contate come fossero dittongo, cioè una sillaba sola.
    Ciò non si verifica per "tezôu", [te-zô-u], trisillabo, né per "ôu" [ô-u], "môu" [mô-u] e "côu" [cô-u], tutti e 3 bisillabi, non dittonghi!

    Negli esempi sopracitati la /O:/ lunga deriva dall’antico dittongo "au" delle parole latine "thesauru(m)", "auru(m)", "mauru(m)" e "caule(m)".

    In realtà, il monosillabo "ou" o "ohu", distinto dal bisillabo "ôu" (it. oro), esiste in genovese, ma si tratta, semplicemente, di un’interiezione, di stile non molto elegante, adottata per richiamare su di sé l’attenzione dell’interlocutore. Tutti sanno riconoscere e distinguere la pronuncia di "ôu" dall’interiezione "ou"!
    Ad esempio, nel "Vocabolario tascabile genovese-italiano per il popolo" compilato dal padre Francesco Bacigalupo, alla pag. 179, si riscontrano, ben distinte e rappresentate tramite la semplicistica ed approssimativa grafia dell'autore: "Ou! Ehi!" e, immediatamente sottostante, "Ou. Oro."

    Il Casaccia osserva anche che "Gli antichi invece si servivano del dittongo ao, scrivendo sciao, ballao, l’Abbao". A voler esser precisi pare piú verosimile che la grafia "ao" indicasse, almeno inizialmente, la pronuncia /a:u/, bisillabica e non dittongata (pronuncia arcaica che si può tuttora ascoltare in alcune zone della Liguria) e, dopo aver attraversato la fase /aw/ (dittongo e, quindi, monosillabo), giunse ad indicare, effettivamente, la pronuncia /Ow/, dittongo "ou" a tutti gli effetti.

    Una morsa letale
    Il Casaccia non si cura di chiarire che la vocale "e" del dittongo /ej/ è chiusa. Lo dà per scontato. Ciò è comprensibile per la sua epoca.
    In realtà, dovrebbe essere cosí anche per la nostra.
    Purtroppo, gli eventi hanno dimostrato ben altro...
    La pronuncia letteraria/urbana di Genova è cosí tuttora. Non occorrono grandi ricerche o grandi uomini di scienza. Basta salire su un autobus, entrare in un bar, in un super/ipermercato ed ascoltare o interpellare anche il meno competente dei potenziali informatori: egli non pronuncerà altro se non /ej/, con la "e" chiusa, ovviamente.
    Eppure, pare che, a partire dall’ultimo scorcio del secolo ormai trascorso, non sia nemmeno piú possibile fornire una descrizione del genovese scientificamente oggettiva e dignitosa:

    1) Nel "Trionfo dro pòpolo zeneise" a cura del prof. Fiorenzo Toso, edito (ahinoi!) dalla Compagna nel 1996, alla pag. 25 si legge: "La e è in genere chiusa, ma davanti a -nn, -r, nei dittonghi e quando sia sovrastata dall’accento grave, è sempre aperta".
    L’affermazione citata che, in genovese letterario/urbano (e quello del "Trionfo" è certamente tale), nelle occorrenze citate in precedenza, la vocale "e" sia sempre aperta è palesemente falsa.

    Ma non basta !

    2) Nella "Storia linguistica della Liguria" dello stesso prof. Fiorenzo Toso (Vol. I "Dalle origini al 1528", pag. 35) si propongono esclusivamente le forme /'bEjve/ e /'mEjze/, cioè, dotate di "e" aperta e sostanzialmente impronunciabili da parte di un cittadino di Genova e si cita lo studioso tedesco Rohlfs (ormai defunto): ma se lo studioso tedesco sbaglia o generalizza pronunce certamente non urbane né, tanto meno, letterarie, sarebbe stato il caso di emendarlo, chiarire, non di citarlo quale corretta fonte informativa, il che, in realtà, non è.

    E non è finita! (e ci si limita solamente al terzo esempio...)

    3) Nel II volume del Vocabolario delle parlate liguri edito a Genova nel 1987 a cura della Consulta ligure (ahinoi!), cui aderisce anche la Compagna (ahinoi!!) si riscontra per Genova Centro, ad esempio, alla pag. 158, unicamente la pronuncia /'mEjze/ con la "e" aperta (?!) del tutto inesistente a Genova.

    Forse, non è questo il luogo opportuno per discuterne, ma l’affidabilità del Vocabolario delle parlate liguri, relativamente a Genova Centro, è tale che si farebbe prima a riscriverlo piuttosto che segnalare tutti gli errori riportati.

    Basti riferire che il I volume dello stesso Vocabolario (edito nel 1985) cita solo ed unicamente, alla pag. 54, anche per Genova Centro (?!), la forma /'bEN/ con la "e" aperta (?!) E nello stesso I volume, alla pag. 57 per Genova Centro è riportato esclusivamente "bèje" /'bEjje/ con la "e" aperta (?!).
    In questo caso l’imprecisione è duplice.
    Non sembra opportuno rienfatizzare l’errore relativo all’apertura del timbro, già ribadita a sufficienza e verificabile da chiunque senza alcuno sforzo. Il fatto è che "beje" /'bejje/ ("e" rigorosamente chiusa a Genova) appartiene al registro linguistico del "purtulian" ed è, ormai, ampiamente disusato in Genova Centro, dove è rimasta abbondantemente maggioritaria la pronuncia di registro borghese "béive" /'bejve/, che il Vocabolario delle parlate liguri neppure riporta, ma che era di gran lunga la piú diffusa e l’unica ad essere citata dal Casaccia che, nei suoi 2 Vocabolari, intendeva attestarsi su livelli linguistici borghesi. D’altronde, i Purtulien non potevano, sostanzialmente, rappresentare il suo mercato: non avevano né interesse né soldi per acquistare le sue dispense o i suoi dizionari. Del resto, anche nelle dimore borghesi le rime educative del Piaggio o quelle piú sboccate del Bacigalupo erano ben piú diffuse dei vocabolari del Casaccia.
    Non si prosegue con le citazioni, perché occorrerebbero volumi...

    Stupisce e addolora che per divulgare sciocchezze riferite a Genova Centro, quali /'mEjze/, /'bEN/ e /'bEjje/ con la e aperta sia occorso un Comitato scientifico ...
    Saiéiva 'bastòu ’na serva o ’na pesciæa o ’na purtêa,
    se ghe n’é ancun á Zêna, pe’ fâ mêgiu e ... pe’ cuscí
    ...

    Nel caso del Vocabolario delle parlate liguri non può sussistere nemmeno l’alibi che si tratti di una proposta di uno standard, per quanto soggettivo o individuale ciò possa essere. Nel Vocabolario delle parlate liguri, apparentemente, vi sono i riferimenti precisi alle località oggetto dell’indagine ... Ma gli svarioni relativi a Genova Centro non meriterebbero nemmeno di essere contraddetti ... Ognuno di noi possiede orecchi ... e i dati dell’esperienza oggettiva sono stati, nel Vocabolario delle parlate liguri, almeno e certamente per Genova Centro, travisati.
    Perché e come non sta a noi di indagarlo.
    Ferisce e indigna che Genova si proponga quale capitale della cultura e che le Associazioni locali che si prefiggono la tutela e la promozione del patrimonio linguistico identitario non riescano ad estrinsecare le competenze e/o la volontà di divulgarlo correttamente.
    Se questa è l’attendibilità, la validità scientifica dell’opera relativamente a Genova Centro, dove, tutto considerato, esiste ancora un ampio numero di potenziali informatori su parole semplici ed usuali come "meize" e "ben", e da nessuno mai pronunciate nel Centro di Genova come sta scritto nei testi citati, sorge spontanea la domanda sulla globale validità scientifica dell’opera !

    La verità è che l'incompetenza di chi vorrebbe proporre il genovese e l'italianizzazione, ormai quasi totalmente pervasiva, rappresentano i due estremi di una morsa letale che, giorno dopo giorno, sta stritolando i miseri resti di ciò che rimane della lingua.

    I trittongi e i quadrittongi
    I trittongi e i quadrittongi



    CAPO III, Dei Dittongi, Trittongi e Quadrittongi,
    "Ha il nostro dialetto pure dei trittongi, come paeise, paese, poeiva, poteva, andieivo, andrei, ecc., nei quali la principale vocale è l’ultima sopra cui la voce si posa; e dei quadrittongi, formanti due sillabe, come in rattaiêu, trappola, tortaiêu, imbuto, scorsaiêu, scorciatoia, ecc."

    Non si può assolutamente considerare come esempio valido paeise perché non esiste evidenza di alcuna pronuncia di transizione che possa essere classificata come trittongo verso l’attuale evoluzione raggiunta, che è rappresentata dalla forma "páize" /'paj - ze/, bisillabo dotato del dittongo discendente /aj/ che si sostituí al nesso /aej/, cosí come nella forma popolare di "avéiva" /a'vejva/, caduta la /v/ tra vocali, passando per /a'ejva/, si ebbe "áiva" /'ajva/. La forma paeise, cioè /pa - 'ej - ze/, tuttora viva in zone arcaiche della regione, è, invece, parola trisillaba, in cui una delle sillabe è costituita dal dittongo discendente /ej/.
    Altro che trittongo!
    Poeiva /'pwejva/ e andieivo /aN'djejvu/ sono esempi piú pertinenti.
    È notevole l’uso pseudo-italianizzante da parte del Casaccia del condizionale andieivo, mentre, tuttora, in città, si preferisce la forma "andiéiva" /aN'djejva/. Pseudo-italianizzante, perché, in italiano, si dice "andrei" [infinito + passato remoto] e non è certo un "o" finale (che, tra l’altro, deve essere pronunciato "u") ad italianizzare un condizionale della lingua genovese composto da [infinito + imperfetto] e tuttora pronunciato in città "andieiva" con la "a" finale.
    "Puéiva" /'pwejva/ deriva da /pu'Rejva/ (analogico su /vu'Rejva/) e "andieiva" /aN'djejva/ deriva da /aNde'Rejva/. La caduta della /R/ ha originato le forme attuali in cui ai timbri vocalici di /u/ si sostituisce la corrispondente semivocale /w/. Si ha, in effetti, l’incontro tra una semivocale /w/ e un dittongo discendente /ej/, dunque un trittongo in ambedue i casi. Cose analoghe per /aN'djejva/, da /aNde'Rejva/, in cui, a seguito dell’eliminazione della /R/ e dell’incontro tra le due /e/ (/aNde'eiva/), la prima /e/ si è trasformata nella semivocale corrispondente /j/, dando /aN'djejva/, proprio come /lave'Ra/ dette /la'vja:/ (leggi l'articolo sui futuri genovesi).

    E i quadrittongi?

    Questa definizione può suscitare nel lettore non poca circospezione e perplessità.
    Tentiamo di chiarire subito un aspetto: quelli che il Casaccia propone come quadrittongi, cosí come l’autore li presenta, proprio non sono tali!
    Ciò che egli afferma, cioè che essi formerebbero due sillabe, risulta davvero privo di senso logico! Dittonghi, trittonghi e quadrittonghi sono per definizione la combinazione di una vocale con una, due o tre semivocali facenti parte della stessa sillaba: se formano 2 sillabe che quadrittongi sono?
    Prendiamo in breve considerazione gli esempi proposti:
    "rataiœ", 3 sillabe, cioè /ra - ta - 'jø:/, l’ultima semplicemente costituita da un dittongo ascendente (semivocale /j/ + vocale /ø:/, lunga e tonica), nulla di piú o di diverso;
    "turtaiœ" /tur - ta - 'jø:/ e "scursaiœ" /scur - sa - 'jø:/, idem come sopra.

    Ma quali quadrittongi?

    Si tratta semplicemente di parole trisillabe la cui sillaba finale è, in tutti e 3 i casi riportati, costituita dal dittongo ascendente /'jø:/.
    Dittongo, non quadrittongo!

    Il Casaccia ha semplicemente enumerato in modo pedissequo i 4 grafemi (lettere) vocalici affiancati secondo la sua grafia (-aiêu), indipendentemente dai fonemi (suoni) che essi stanno effettivamente a rappresentare, ma non ha cercato di approfondire l’aspetto della struttura linguistica della lingua genovese, di fronte al quale pare rimanere cieco.

    L'ISOTONIA

    Nel genovese urbano possono esistere due pronunce alternative per la stessa parola. Prendiamo ad esempio la parola "rataiœ" (it. trappola per topi). Essa può essere pronunciata:

    /,ratta - 'jø:/ dove l’accento secondario (in questo caso, nella sillaba iniziale) assume un’intensità comparabile con quella dell’accento primario e genera, quindi, un fenomeno di "isotonia" (accenti, o toni, di eguale intensità).
    La consonante "t" risulta "intensa" in quanto "post-tonica" (cioè successiva all’accento, anche se, almeno formalmente, "secondario")

    oppure

    /,ra - ta'jø:/ dove prevale invece l’accento primario.
    La consonante "t" risulta "scempia" in quanto "pro-tonica" (cioè, precedente la sillaba accentata).

    Nel concreto, concetti quali "pro-tonia" e "post-tonia", applicati alle consonanti del genovese per chiarire la loro maggiore o minore intensitá, sono relativi: essi dipendono infatti dalla prevalenza o dalla equivalenza degli accenti delle diverse sillabe che compongono la parola.

    Due conclusioni si impongono:

    1) il genovese letterario/urbano, per tutta una serie di vocaboli possiede alternative di pronuncia ed è altrettanto corretto pronunciare /ratta - 'jø:/ quanto /,ra - ta'jø:/ etc. La motivazione risiede sull’importanza e sull’intensità dell’accento cosiddetto "secondario" in molte parole genovesi.

    2) paradossalmente, la relativa libertá d’accento che si realizza nella lingua genovese ci fa accettare e percepire come adeguata una grafia tradizionale quale "rattaiêu", che non proviene, se non inconsciamente, da una consapevolezza del fenomeno linguistico esposto, ma da un semplice adeguamento all’italiano standard per il quale, ha senso ribadirlo per l’ennesima volta, raddoppiamento consonantico e accento sillabico non sono direttamente connessi come in genovese, ma seguono principalmente motivazioni etimologiche.

    Forse l'incontro tra due semivocali ed un dittongo potrebbe ambire alla definizione un po’ temibile di quadrittongo: ne esistono in genovese?
    Certamente!
    Se si dovesse tradurre nel genovese d’ancien régime il condizionale italiano "mi divertirei", si dovrebbe dire "me demurereiva" /'me de,mu:Re'Rejva/, dall’antico verbo /demu'Ra:se/. Ma nel genovese odierno si dice (da parte di quei due o tre che sono ancora in grado di farlo con naturalezza...) "me demuiéiva" /'me de'mwjejva/, e questo in seguito all’eliminazione delle due /R/ intervocaliche presenti nella forma verbale antica e alla trasformazione delle due vocali /u:/ ed /e/ nelle corrispondenti semivocali /w/ ed /j/ davanti al dittongo /ej/ con conseguente formazione del quadrittongo /wjej/:
    2 semivocali + 1 vocale + 1 semivocale.
    Nel genovese verace si trova anche la combinazione inversa, e cioè /'jwej/. Se, infatti, nel centro urbano di Genova chi ha appreso la lingua dalle labbra materne e non dai dizionari chiama "stramiòu" /stra'mjOw/ colui che nella "cazaçça" /ka'zassa/ non portava la croce, chiamava altresí "stramiuéi" /stra'mjwej/ tutti coloro che in ogni singola "cazaçça" intervengono nell’atto di liberare dalla croce il "purtòu" /pur'tOw/ di turno per caricarla su uno degli altri "purtuéi" /pur'twej/ disponibili.

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