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Le preposizioni articolate
Le preposizioni articolate


Tanto al CAPO II che al CAPO IV il Casaccia prende in considerazione alcune preposizioni articolate, ma, indipendentemente dalla grafia adottata, il problema più evidente permane nell'eccessivo tentativo di italianizzazione.

CAPO II, Degli Accenti
"[La dieresi] serve a contrarre le seguenti preposizioni articolate:
ä


sciö
sciä
scï

invece di
»
»
»
»
»
»
»
a-a,
da-a,
co-o,
sce-o,
sce-a,
sce-i,
ne-e,
pe-e
,
alla
dalla
col, con il, con lo, collo
sul, sullo
su la, sulla
su i, sui, sugli
nelle
per le
"

Sciö, sciä e scï, comunque grafati, non corrispondono alle preposizioni italiane "sul", "sullo", "sulla", "sui" e "sugli", in quanto, in genovese, si deve dire "in sciû" /'iN 'Su:/ "in sciâ" /'iN 'Sa:/ e "in scî" /'iN 'Si:/ e non altrimenti. Nemmeno per "nelle", anche se, purtroppo, ha riscontrato adesione da parte di qualche autore, non trova riscontro nel vero genovese, nemmeno in quello odierno, in cui si dice solamente "in t’e" /'iN t e/ e non diversamente.

CAPO IV, Del Tratto d'unione
"Il tratto d’unione [...] serve a congiungere insieme le seguenti preposizioni coll’articolo:
a-o, al, allo
a-i, a’, ai, agli
a-e, alle
da-o, dal, dallo
da-i, da’, dai, dagli
da-e, dalle
co-a, colla, con la
co-e, colle, con le
co-i, co’, coi, con gli
ne-a, nella
ne-e, e per sinc. , nelle
ne-i, ne’, nei, negli
pe-o pel, per lo
pe-i, pe’, pei, per gli
pe-a, per la
pe-e, e per sinc. , per le"

La pronuncia di a-o all’epoca dell’autore era senz’altro /Ow/, cioè dittongo, proprio come nel participio passato "cantòu", come tuttora ben ricordato da veri locutori di età molto avanzata, anche se, in realtà, magari, non piú praticato. Ma allora, se si trattava di un dittongo, perché grafarlo con le vocali "a" e "o", dato che giá non si scriveva (e non si diceva) piú cantao /kaN'ta:u/ bensí "cantòu" /kaN'tOw/? Perché staccare graficamente tramite un trattino i due fonemi che compongono un dittongo, cioè, per usare parole semplici, un’unica emissione di voce?
Oggi si dice "au" e, nella catena del parlato è forse l’unico caso, nel genovese attuale, in cui si possa percepire la dittongazione di "au", come, ad esempio, nella semplice frase: "u daggu au figgiu d’a meistra" et c. ... Se si parla in modo sufficientemente naturale "au" risulta dittongo. I vecchi dicevano diversamente e pronunciavano, in totale consistenza con la struttura intrinseca della lingua genovese, "ou", cioé /Ow/, proprio come nei participi passati, ma l’esame dei vecchi stili urbani di pronuncia appesantirebbe troppo la trattazione presente ...

Occorre, inoltre, ribadire che le prescrizioni relative a ne-a, ne-e e ne-i non hanno, fortunatamente, mai attecchito nella lingua parlata. Hanno, purtroppo, trovato riscontro in alcuni autori, si possono ritrovare in alcuni testi, ma non è genovese! La lingua genovese dice tuttora solamente "in t’a" "in t’e" "in t’i" e non altrimenti.

Anche nell’adozione della grafia pe-o il Casaccia non si dimostra né particolarmente incisivo, né particolarmente fedele alla lingua genovese né, tanto meno, innovativo o libero da vincoli pregiudiziali: egli non osa ciò che potrebbe allontanarlo dalle grammatiche scolastiche della lingua italiana. L’antica grafia pe ro (it. per lo) non era piú adeguata alla rappresentazione della lingua della sua epoca, ormai priva dell’erre palatale intervocalica. Va notato che in pe ro la "r" venne eliminata come se si fosse trattato di una sola parola.

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Elisione e crasi
Nel genovese esistono 2 fenomeni linguistici relativamente banali che riguardano l’incontro tra la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola successiva nella catena del parlato (aspetti di fonosintassi). Sono fenomeni codificati in Occidente fin dai tempi dei grammatici che studiarono la lingua greca classica.

  • Uno è rappresentato dall’elisione, cioè la perdita di una delle due vocali.
  • L'altro è il fenomeno della crasi, termine di origine greca che significa fusione.

    ELISIONE
    "L’erbu" rappresenta un’elisione, come poc’anzi definita, proprio come l’italiano "l’albero". L’apostrofo non è null’altro se non il segnale o indicatore grafico dell’avvenuta perdita, verificatasi nella pronuncia, di una delle due vocali che sono venute in contatto.
    Le grafie tradizionali del genovese possono aspirare ad una certa plausibilitá e tenuta finché rappresentano fenomeni linguistici affini o analoghi a quelli dell’italiano standard. Però quando questo tipo di affinitá/analogia viene a cessare, la loro plausibilitá e logicitá vengono meno ed esse scadono nel pressappochismo, nell’imprecisione e nella scorrettezza.
    In italiano è corretta, come preposizione articolata, la parola "della". In genovese invece, se "di" (prep. semp.) si dice "de" e "la" (art. det. femm. sing.) si dice "a", allora, occorrerà scrivere "d’a", perché nell’incontro di [de + a] la [e] è stata eliminata, cioè, si è verificata un’elisione e questa elisione va segnalata mediante l’apostrofo. Se decidiamo di non adottare l’apostrofo per denotare che si è verificato il fenomeno linguistico dell’elisione e scriviamo "da", allora, per coerenza dobbiamo anche grafare "lerbu".
    Insomma:
    o "l’erbu" e "d’a"
    o "lerbu" e "da"

    Sciysciâ e sciurbî nu se pœ...

    CRASI
    Mediante la crasi, fenomeno linguistico fonosintattico, realizzato e dovuto alla catena del parlato, la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola successiva si fondono in un'unica vocale oppure in un dittongo. Nel secondo caso non si elimina nessun fonema vocalico: una di esse od entrambe, possono cambiare timbro, ma il loro numero permane immutato (solitamente si tratta di 2 vocali, ma esistono anche casi piú complessi).
    È il caso di "pe-o", anzi "pou" /'pOw/ (it. per il/lo): a partire dall’antica scrittura (e pronuncia) "pe ro", la caduta della erre palatale intervocalica ha posto in contatto le due vocali e si è prodotto, come in moltissime altre occorrenze, il dittongo /Ow/.
    Lo stesso fenomeno si verifica anche nella parola "ángiou" /'aNdZOw/ (it. angelo), derivata da ciò che era anticamente scritto "angero" e pronunciato /'aNdZeRu/.

    Pronunciare "pe u" /'pe 'u/ puó forse essere accettabile per alcuni cultori del genovese, ma la lingua schietta, vera, non ipersemplificata o sbiadita, cioè, totalmente devitalizzata a vantaggio (e quale, poi?) di chi non ne sia un effettivo locutore, richiede si dica "pou" /'pOw/.
    È ovvio che le vocali vanno scritte contigue e senza apostrofo!

    Sotto l’aspetto fonetico, non può essere né ragionevole né sensato scindere le vocali appartenenti ad un dittongo, soprattutto se si intende scrivere in una grafia piú immediatamente comprensibile a reale beneficio ed apprendimento per lettori che non conoscono piú le sonoritá della lingua che tentano di leggere.
    L'apostrofo invece non va messo, perché esso serve soltanto ad indicare l’elisione (cioè la diminuzione, nel senso matematico) di un’unità vocalica, non la crasi (etimologicamente "fusione", cioè, creazione di un dittongo, una sillaba sola), nella quale si verificano mutazioni di timbri vocalici, ma non muta la somma aritmetica dei fonemi vocalici coinvolti.

    Da [de + a] a "d’a" si ha ELISIONE = perdita (diminuzione matematica) di un timbro vocalico.
    Da [pe + u] a "pou" si ha CRASI: si passa da 2 sillabe ad una sola, il timbro /e/ muta in /O/ (questo fenomeno si definisce, scientificamente, APOFONIA), ma le vocali, quantitativamente, permangono in numero di 2.
    Questo fenomeno non deve essere confuso con l’elisione.

    All’eventuale obiezione che la legittimazione grafica della crasi possa rendere meno agevole l’intellegibilità di un testo, si può osservare che la crasi è correntemente adottata in una lingua classica quale il greco antico che sta a fondamento, tuttora, della nostra cultura e civiltà occidentale. La crasi si può facilmente riscontrare in opere filosofiche, letterarie e scientifiche in cui si intendeva conseguire l’imprescindibile e chiara comprensione del testo da parte del lettore.

    Non pare totalmente fuori di proposito proporre all’attenzione del lettore il fatto che, in genovese, la crasi poteva generare non solo dittonghi discendenti, quale "pou" /'pOw/, ma anche dittonghi ascendenti, quest'ultimi in particolare, assai frequenti nello stile portoriano, che tendeva a nasalizzare le vocali seguite dal fonema /N/.
    Questo tipo di pronuncia è oggi assai difficile da riprodurre fedelmente, anche perché non si ha conoscenza di registrazioni sonore genuine che, per poter offrire un'adeguata attendibilità, dovrebbero essere state effettuate prima dell’ultima guerra, interpellando i residui locutori di questo registro linguistico, socialmente connotato.
    E, mentre i borghesi pronunciavano /'suN a'nE:tu/ o, addirittura, /'suN aN'dE:tu/, i "purtulien", che nasalizzavano la vocale di /'suN/, pronunciavano /'swa:'nE:tu/, realizzando un esempio di crasi ed originando un dittongo ascendente nella sillaba /'swa:/.

    Si avverte il lettore che si è adottato, mutuandolo dal greco, il termine di crasi per operare una necessaria e netta distinzione, mai affrontata in modo soddisfacente per il genovese, rispetto al diverso e distinto fenomeno linguistico dell’elisione.
    É ovvio che le crasi che si realizzano nel greco, lingua con antiche radici comuni al genovese, in quanto entrambi linguaggi indoeuropei, ma, oggettivamente, chiaramente differenziati, non corrispondono totalmente alle modalità con cui la crasi si produce nell’autentica lingua genovese. D’altronde, non si è ritenuto necessario né opportuno inventare parole nuove per fenomeni ben noti nelle scienze linguistiche e descritti da, almeno, 2000 anni...
    Non sono stati volutamente usati altri termini che, pure, avrebbero affinità con il fenomeno descritto quali sineresi o sinizesi, perché:
  • normalmente, vengono riferite ad incontri vocalici interni ad una singola parola;
  • non si può condividerne l’uso improprio ed errato che ne ha proposto il Gazzo.
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    Casaccia figlio della propria epoca
    Casaccia figlio della propria epoca



    Per concludere, oltre all’aspetto prettamente linguistico, occorre osservare che, all’interno di tutta la propria trattazione, il Casaccia non cita mai esempi di altre regioni e lingue regionali d’Italia, ma si rifà unicamente all’italiano standard o al francese, la lingua dell’élite culturale dell’epoca, nella quale si potevano leggere tutte le novità filosofiche, scientifiche, tecnologiche, mediche, di moda ed altro ancora.... come avviene, oggigiorno, relativamente all’inglese.
    Nel far unica menzione, pur trattando del genovese, della lingua francese, vera lingua nazionale secondo i canoni culturali del XIX secolo, il Casaccia si rivela vero figlio della propria epoca. È ovvio che suoni consonantici e vocalici non presenti nell’italiano insegnato nelle scuole non sono esclusivi del genovese e si ritrovano anche in altre lingue italiane. Il genovese, storicamente, non é mai stato circondato dal vuoto, ma da altre lingue locali, sulle quali, col passare del tempo, la lingua nazionale operò come superstrato imposto da una serie di fattori, tra i quali, evidentemente, predominavano le grandi scelte culturali e le decisioni politiche.
    Oggi, oltre Ventimiglia, si ascolta solo il francese, piú o meno standard (parigino), e null’altro. All’epoca del Casaccia la situazione era assai diversa dall’attuale. Il ligure non confinava col francese standard. Esistevano ancora le varietá del provenzale (anche se ormai in una fase di decadenza protrattasi per secoli e definitivamente sancita dalle conseguenze della Rivoluzione francese, che stigmatizzò le lingue locali di Francia come le "lingue della superstizione" e del "feudalesimo"): c’era, ancora, molto cammino e si potevano ancora apprezzare panorami linguistici assai differenziati prima di giungere a Parigi.
    Ma la connotazione ideologica ottocentesca del Casaccia risulta chiara. Ad esempio, a pag. 13 al punto 9, per la lettera "x" (fonema /Z/) l’autore cita solo esempi francesi. Ma il fonema /Z/, anche se non accettato nell’italiano standard che si insegna nelle scuole, è presente, ad esempio, anche in fiorentino ed in molte altre varietà linguistiche della Toscana! Il fonema è identico anche se le occorrenze, rispetto al genovese, sono diverse. A pag. 12 punto 8, per /y/ e a pag. 15 CAPO III per /ø/ viene citato solamente il francese, ma i due fonemi sono ben presenti anche al di qua delle Alpi! Inoltre, appare evidente come anche la focalizzazione esclusivamente mirata alle lingue nazionali (italiana e francese) in una persona che visse il periodo del Risorgimento italiano, le impedí di liberarsi dal giogo e dall’imitazione dell’italiano standard, oltre al vincolo costituito dalle grafie tradizionali precedenti che giá avevano fatto propria questa attitudine di soggezione.

    Ad essere onesti occorre riconoscere, nell’evoluzione delle grafie del genovese, un certo tentativo, mai globalmente riuscito, di perseguire una qualche innovatività ed aderenza alla pronuncia effettiva. Quando non si pronunciò piú la erre palatale intervocalica (se non come attitudine di restaurazione da parte di una ristretta classe aristocratica e per un tempo storicamente breve), questa consonante fu espunta dalla lingua scritta e, bene o male, si cercò di rappresentare i nuovi dittonghi che erano venuti a far parte della nuova pronuncia di chi aveva eliminato questo confine tra sillabe.
    Però, globalmente, a partire dalle grafie tradizionali della lingua genovese, si desume una debole autocoscienza delle proprie specificitá e, si oserebbe scrivere, una relativa incapacitá a svincolarsi dalle norme grafiche della cultura dominante espressa in lingua italiana. Basti citare il permanere della grafia "o" per ciò che è /u/, il non avere mai adottato un simbolo specifico per il fonema /y/, estraneo al fiorentino ed all’italiano standard (se non per mezzo di rappresentazioni grafiche ottenute mediante arrangiamenti che hanno causato contraddizioni interne al sistema e difficoltà di lettura per chi già non conosce la lingua), la rappresentazione grafica del raddoppiamento consonantico in modo incoerente e, nella maggior parte dei casi, "alla toscana", mentre la gestione delle doppie etimologiche nel genovese se ne discosta parecchio etc...

    L’indubbio migliore esito funzionale e la superiore resa grafica dello standard fiorentino ed italiano furono dovuti ad un ben maggiore coraggio innovativo e ad un forte senso di indipendenza e di autonomia rispetto alla lingua-madre, il latino, che andò sviluppandosi ed irrobustendosi nel corso dei secoli.
    Da molti secoli nessun fiorentino e nessun italiano accetterebbe di scrivere "mundu" ciò che tutti pronunciano "mondo" solo perché in latino si scriveva con due "u". A Genova si dice "mundu" da chissá quanti secoli, ma non ce la siamo mai sentiti di incidere sulla carta la nostra vera lingua, come veramente si parla! Ed "in genovese" (!?!) si continua a scrivere "mondo".

    È chiaro che l’italiano, invece, disponendo di una ben piú forte autoconsapevolezza, è riuscito, nel tempo, a sviluppare una grafia fortemente ottimizzata e ben superiore, sotto molti aspetti, a grafie "etimologiche" o "pseudo-tali" di lingue quali il francese o l’inglese.

    Però, purtroppo, in definitiva, la storia sembra aver dato ragione al risorgimentale Casaccia.
    Non solo le classi borghesi genovesi giunsero a padroneggiare completamente la lingua nazionale, ma rimossero dalle loro labbra e dal loro cuore la lingua identitaria. Cosí fecero col passar del tempo anche tutte le altre componenti sociali della cittá. Gli immigrati da altre zone (un tempo provenienti solo dall’Italia) non ritennero piú meritevole di apprendimento la lingua di Genova ai fini del loro inserimento sociale. Adesso gli immigrati piú recenti (Nordafricani, Sudamericani etc.) si dedicano, con risultati, in molti casi ottimi, esclusivamente all’italiano, perché l’italiano é l’unica realtá vitale che percepiscono in cittá.
    Se no imparerebbero anche il genovese.
    Non sono mica meno vispi di noi.
    L’ultimo tentativo di una qualche rilevanza sociale di apprendimento della lingua locale fu effettuato, con esiti alterni, negli anni del primo dopoguerra dagli emigrati del Meridione col loro "zeneize d’u mò". Ma fu l’ultimo, in assoluto. Ed è ormai acqua passata...

    Anche relativamente alla grafia, gli odierni cultori della lingua, pur con variazioni minime, scrivono ancora alla maniera del Casaccia, con tutte le incongruenze che ne conseguono.
    La lingua socialmente viva e socialmente parlata a partire dall’interno delle famiglie, si é ormai spenta, a parte i nobili tentativi culturali di revival che ogni tanto si percepiscono, senza che, nel suo percorso storico (quasi millenario, secondo i documenti resi noti dagli studiosi), la lingua genovese abbia mai potuto trovare una propria e ben definita rappresentazione grafica adeguatamente ed effettivamente autonoma rispetto alla cultura dominante ed in precisa sintonia con la propria specificitá e struttura linguistica.
    MAGISTER 1/10/2002
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