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Vincoli imposti da una scelta di grafia,
errori nella rappresentazione della lingua e
impatto sul senso d'identità.

Per l'agevole comprensione di quanto verrà esposto nel seguito risulta necessario riferire sinteticamente in merito alla scelta grafica effettuata nella Grammatica del genovese del prof. Toso, in cui il simbolo "u" viene designato a rappresentare il fonema /y/ di "tyttu" /'tyttu/ (it. tutto) o "mŷ" /'my:/ (it. mulo), riservando il simbolo "o" sia per il fonema /u/ di "bun" /'buN/ (it. buono) sia per il fonema /O/ (ò aperta) di "votta" /'vOtta/ (it. volta).
Nella pronuncia del Centro urbano di Genova il fonema /O/ tonico, cioè colpito dall'accento principale della parola, risulta sempre di timbro aperto.
Non formulo, in queste brevi note che hanno altri obiettivi, la proposta di adottare il simbolo "y" per il fonema corrispondente (il fonema presente nella parola "tyttu" /'tyttu/ per intenderci).
Si eliminerebbe l'ambiguità insita in una grafia che adotta il simbolo "o" per indicare due fonemi distinti: la /O/ di /'vOtta/ e la /u/ di /'buN/.
Si eviterebbe di grafare con "u" ciò che non è /u/, bensí /y/ (/'tyttu/), che è ben avvertito come fonema distinto dalla /u/ toscana o, se preferiamo, dell'italiano standard.

Sotteso a queste sintetiche considerazioni è il fatto, ormai indubitabile che tutte le grafie di tipo tradizionale si rivolgevano ad un pubblico che possedeva una conoscenza a priori della lingua, ciò che, piaccia o meno, non è piú vero, per molta parte, nella realtà odierna.
Pensa qualcuno davvero che i bimbi delle scuole che, come riferisce il prof. Bampi, non riescono nemmeno piú a pronunciare (a Genova!) il fonema /y/ di /'tyttu/, possano effettivamente trarre un reale beneficio da una grafia che glielo maschera come "u" e lascia loro l'ambiguità dell'unica rappresentazione sotto l'aspetto di "o" di ciò che è in realtà, a seconda dei casi, o /O/ o /u/?

Tralascio di sviluppare ulteriormente le considerazioni accennate, che, pure, permangono di importanza fondamentale, per proseguire nello sviluppo delle tematiche in oggetto.

Nella Grammatica del genovese del prof. Toso, relativamente alla rappresentazione della caratteristica della quantità delle vocali del genovese (brevi/lunghe), si prescrive l'adozione della dieresi per designare la lunghezza di vocale in sillaba non finale e l'uso dell'accento circonflesso per denotare lo stesso fenomeno (sillaba lunga) in sillaba finale.
Fiorenzo Toso
Grammatica del genovese
Pag. 27 n.5 c.:
In genovese, la lunghezza delle vocali, toniche o atone, viene resa [...] sempre mediante l'uso dell'accento circonflesso quando si deve indicare che è lunga la vocale accentata in finale di parola: portâ [purtá] 'portare', l'ò mangiâ [l'ò maňğá] 'l'ho mangiata', a montâ [a muňtá] 'la salita' [...]
Pag.43 n.65:
[...] andranno evitate grafie del tipo portä 'portata' invece di portâ [purtá], in quanto i due punti vengono usati solo in corpo di parola.

È superfluo notare che, ovviamente, il contenuto informativo differenziale risulta nullo.
Risulta banale che, se si intende disporre di due segni diacritici quali la dieresi e il circonflesso, avrebbe avuto molto maggiore significato adottarli per discriminare tra la vocale lunga tonica (cioè, che reca l'accento principale della parola) e altre eventuali vocali lunghe, appartenenti alla stessa parola, ma atone (cioè, non dotate dell'accento principale).
Es.: mëgâ /me:'ga:/ (it. medicare), guägnâ /gwa:'gna:/ (it. guadagnare).
In questo caso si otterrebbe un effettivo contenuto informativo, mentre cambiare da dieresi ad accento circonflesso, solo perché si ha a che fare con la sillaba finale, comporta un aspetto di puro ordinamento delle sillabe e non di tono, cioè accento principale, che non fornisce, evidentemente, alcuna informazione utile.
Infatti, il dato che una sillaba risulti finale risulta immediato dalla nostra grafia, che scrive le parole staccate e questa è una considerazione comprensibile anche a livello infantile.

Proseguiamo.

Nella stessa "Grammatica" (pag. 45 n.70) si indica che la vocale "ö", contrassegnata da dieresi, possa indicare tanto il fonema /O:/ quanto il fonema /u:/.
Fiorenzo Toso
Grammatica del genovese
Pag.45 n.70.:
La lunghezza delle vocali viene segnata soltanto in finale di parola (con il circonflesso) o all'interno di parola (con i due punti)[...] I due punti sulla o rendono sia il suono lungo di [u] che di [ò], senza possibilitá di distinzione. La o pronunciata [ò] non e' mai lunga in posizione finale (ha quindi sempre l'accento grave: o fò [u fò] 'il faggio', mi mangiò [mi maňğiò] 'io mangerò').
Infatti si citano /'kò:sa/ e /'du:se/, contenenti due fonemi vocalici ben distinti, grafati tutti e due con la "o" come cösa e döçe, anche se la pronuncia risulta ben diversa.
L'autore aggiunge letteralmente che: "In questi casi, soltanto la conoscenza dell'idioma può aiutare nell'esatta pronuncia" (pag.26 n.5 op. cit.).
Si tratta, filosoficamente, di una petizione di principio, cioè significa che per apprendere la lingua, occorrerebbe già saperla...
Non proseguo sull'analisi semantica di questa dichiarazione che, tuttavia, la dice lunga su quanto una grafia ambigua possa risultare d'ausilio a chi volesse veramente apprendere o approfondire la lingua...

Ma non siamo ancora arrivati al punto...

Ciò che la "Grammatica" consente alla "ö", cioè di indicare tanto la /O:/ lunga quanto la /u:/ lunga, non viene concesso (e oggettivamente non se ne comprende il perché) a "ô" che, chissà mai perché, può denotare ESCLUSIVAMENTE la /u:/ lunga.
Questo vincolo imposto dalla "Grammatica" suddetta è esplicitato alla pag.44 n.66:

"...la dieresi non può essere usata in fine di parola."

L'inserimento di questo ulteriore vincolo, non strettamente necessario,
non solo genera una rappresentazione grafica discutibile,
ma sta addirittura alla base dell'affermazione, manifestamente non corretta,
che i verbi futuri abbiano, in genovese, vocale tonica breve.

Prima di tutto chiariamo il discorso sul futuro.

In genovese, come in italiano e come in buona parte delle lingue derivate dal latino (in realtà, anche in altre) il futuro che si usa non è piu' la continuazione del futuro antico, ma si ha una forma perifrastica che denota l'aspetto di dovere, convenienza, obbligo, previsione et c...
Per non farla lunga, si può affermare che il futuro genovese e quello italiano si equivalgono e corrispondono ad un aspetto di dovere, realizzato mediante l'uso del verbo avere, come se si trattasse di dire: io ho da cantare et c...
E, infatti, in italiano standard si hanno: canterò, canterai, canterà et c... formati originariamente da cantare + ho, hai, ha et c...

Similmente nel genovese si ebbe:
(indico con /R/ il fonema palatalizzato intervocalico, simile alla erre all'inglese , non piu' presente nel genovese di oggi) kaNte'RO
ti kaNte'RE:
u kaNte'Ra
kaNte'Remmu
kaNte'Rej
kaNte'RaN
Si riconoscono, evidentemente, nelle desinenze, le forme del presente del verbo "avei" /a'vej/ che sono:

'O
ti 't E:
u 'l a
'emmu
'ej
'aN

Le forme dotate di /R/ intervocalica trascritte sopra esistono tuttora (anno 2001) in zone dotate di pronuncia arcaica. L'argomento, se di qualche interesse, potrà essere approfondito in altra sede.
A seguito della caduta della /R/ intervocalica nella pronuncia del Centro urbano si ebbero le forme:
kaNte'O
ti kaNte'E:
u kaNte'a
kaNte'emmu
kaNte'ej
kaNte'aN
che, come è già stato illustrato in un articolo apparso su questa rubrica, hanno fornito le attuali forme verbali:
kaN'tjO:
ti kaN'tjE:
u kaN'tja:
kaN'tje:mu
kaN'tjej
kaN'tjaN

cioè si è passati da /e/ + vocale a /j/ + vocale lunga,

come non è avvenuto solo nei verbi, ma anche in sostantivi quali /se'ROttu/ (it. cerotto ...ed altro) che ha dato "çiotu" /'sjO:tu/, o /kante'Retta/, che ha dato "cantieta" /kan'tje:ta/ (it. cassettino) e molti altri termini...

Altra regola "chiave" del genovese: la sillaba lunga scempia la consonante seguente.

E, infatti, abbiamo /kan'tje:mu/, come abbiamo /kan'tje:ta/ et c...
Anche le altre persone del futuro hanno vocale finale lunga, anche se, evidentemente, non seguita da consonante.

Dunque, la caduta della erre palatalizzata intervocalica ha causato l'allungamento delle vocali toniche (=accentate) nelle forme attuali [la /R/ intervocalica é caduta, le due vocali sono entrate in contatto, si sono fuse e hanno formato un dittongo ascendente composto da una semivocale seguita da una vocale lunga c.m.].

I futuri a Genova hanno quindi le vocali finali lunghe.
Questa è la sola pronuncia che chiunque, scevro da pregiudizi,
può ascoltare a Genova e altrove...

Che ne dicono gli autori?

L'Ageno, nei suoi Studi genuensi, a pag.53 scrive testualmente:
Ora è regola generale del "dialetto" genovese che, quando un dittongo improprio [intende dire ascendente, cioè formato da semivocale (/j/ come nella pronuncia italiana di ieri o /w/ come nella pronuncia italiana di uomo) seguita da vocale] è tonico [cioè, vi cade l'accento principale della parola], l'accento cade sempre sulla seconda vocale e questa risulta lunga [...] e si ha [...] "cantiô", "vendiô", "sentiô" [che, nella sua grafia, discutibile come qualsiasi altra ma che, se non altro, mantiene il pregio di non mascherare il vero fatto linguistico, valgono /kaN'tjO:/, /veN'djO:/, /seN'tjO:/].

Evidentemente, anche il Parodi nei suoi Studj liguri, a pag.158 n.126, quando tratta delle finali toniche, chiarisce che sono lunghe quelle appartenenti ai futuri e fa, inoltre, l'esempio di /a'vjO:/ (it. avrò) da /ave'RO/, che conferma quanto piú sopra esposto relativamente alla derivazione di /kan'tjO:/ da /kante'RO/.

È la stessa, stessissima cosa e si perviene, sempre, a SILLABE LUNGHE.

Nella "Grammatica" del Toso si legge invece:
pag.43 n.66
Futuro verbale. La vocale finale accentata del futuro indicativo non è mai lunga: lê o mangià [lé u maňğiá] 'egli mangerà' e non mangiâ (o peggio mangiä); mi partiò [mi partiò] 'io partirò' e non partiô, partiö; in questo caso, l'uso dell'accento circonflesso non sarebbe comunque adeguato, in quanto la ô rende soltanto il suono di [u], mentre la dieresi non può essere usata in fine di parola. In genovese la ò finale non è mai lunga: parole come bersò [bersò] 'pergolato', landò [landò] 'calesse' ecc. hanno la ò breve. pag.44 n.67
Posizione in iato della -i- nel futuro e in altri casi. In alcuni casi, e particolarmente in varie forme verbali, la [i] si trova in posizione di iato, ed è quindi vocalica, non consonantica, pur essendo a contatto con un'altra vocale: tiâ [tiá] 'tirare', giâ [ğiá] 'girare'. Ciò si verifica in particolare nel caso del futuro indicativo, in cui la [i] che raccorda la radice alla desinenza è vocalica: mi portiò [mi portiò] 'io porterò', mi sbraggiò [mi zbrağiò] 'io griderò'.[...]

Quanto sopra è per altro contraddetto - almeno in un caso - nella "Grammatica" stessa.
Infatti a pag.168 n.41, nella coniugazione del futuro di cantare si riporta cantiemo con la relativa trascrizione fonetica [kaňtiēmu].
Qua, la contraddizione è, almeno, duplice.
Infatti, se la /e/ (facente parte, o meno, di un cosiddetto dittongo ascendente /je:/) è correttamente, nella trascrizione fonetica, riportata lunga (quale essa effettivamente è), non si vede perché, nell'ambito della grafia adottata dalla "Grammatica", non possa essere contrassegnata come "ë".

La seconda contraddizione consiste nel fatto che mentre si riconosce che il fenomeno linguistico ha creato una sillaba lunga nella prima persona plurale del futuro semplice, ciò non lo si ammette per le altre persone dello stesso tempo,

e questo, contrariamente all'esperienza comune e all'autorevolezza
degli studiosi che hanno preso in considerazione codesto fenomeno,
solo per un vincolo non necessario di scelta grafica.

Non si tratta piú di valutare quanto una grafia - che rimane, pur sempre, una rappresentazione o una simulazione del fenomemo linguistico - sia ottimizzata o meno,

in questo caso, una scelta grafica arbitraria conduce a negare il fenomeno stesso,
non a rappresentarlo piú o meno bene.

Ad ogni modo, /kaNti'O/, con la /i/ in posizione di iato e la /O/ finale breve, è una forma verbale non esistente a Genova (e non credo nemmeno altrove) che potrebbe essere inserita in ciò che nei primi anni dell'ultimo dopoguerra veniva definito come "u zeneize du mò" /'u ze'nejze d u 'mO/ . "Mò" era il tentativo di pronunciare "mœ" /'mø:/ (it. molo) da parte di quei lavoratori immigrati a Genova - molti dal Meridione - e che cercavano di inserirsi nel tessuto linguistico della città.
All'epoca venivano canzonati, ma, invece, il loro costituiva un nobile tentativo di inserirsi, come potevano, nello standard linguistico della città che li ospitava e che ancora rappresentava, in molti ambienti, un VALORE.
Non erano ricchi né di soldi né di istruzione e molti non conoscevano neppure bene il cosiddetto italiano standard.

Chi oggi si proporrebbe di apprendere la lingua genovese per inserirsi nella città di Genova?

Noi oggi possediamo soldi e cultura, ma non siamo piú in grado di mantenere la nostra IDENTITÁ, men che meno di trasferirla ai nostri figli.
È chiaro che non ci interessa che i nostri figli apprendano la lingua genovese per aspetti banali di comunicazione.
Credo che per chiedere informazioni a un passante, a Genova, risulti molto piú efficace la padronanza dell'italiano standard...
Se accetto che mio figlio impari a scuola il genovese è per una seria e nobile motivazione identitaria, che lo colleghi correttamente alle radici, al territorio, alla storia.
Ma la lingua che si propone a scuola, e che la "Compagna" ha per Suo statuto di promuovere e tutelare, per quanto concerne la città di Genova, deve possedere il requisito dell'aderenza alla storia, ai veri ed effettivi fenomeni linguistici che (a Genova, intendo) si sono svolti ed affermati.
È ovvio che io parlo per Genova, ma analogamente dovrebbe avvenire per gli altri posti.
È chiaro però che se a mio figlio si insegna che la lingua della letteratura genovese e dei suoi antenati pronunciava /'kEN/ per "cani" o /kuN'tENtu/ per "contento" (con la /E/ aperta) o che si diceva "byzâ" per "bisogna" o che "rete" si dice /'rE:/ in genovese, mentre la pronuncia della vocale finale a Genova non è lunga, ma è breve, e basta chiederlo a qualsiasi anziano pescatore, che dice "rè" /'rE/ e non "ræ" /'rE:/...
Se gli si insegna che le forme piú raffinate "tò" e "sò" sono obbligatorie davanti ai nomi di parentela (pag.99 n.45 op. cit.), anziché "tœ" /'tø:/ e "sœ" /'sø:/ per, rispettivamente, "tuo, tua, tuoi, tue" e "suo, sua, suoi, sue, loro"...

Ma quando mai?

Scherziamo davvero?

Le signore di Carignano hanno sempre parlato di "so lalla" /'so 'lalla/, "to barba" /'to 'barba/, ma le signore di Sarzano e di molti altri quartieri hanno sempre conversato, anche con le signore di Carignano, dicendo tranquillamente "sœ lalla" /'sø: 'lalla/ o "tœ barba" /'tø: 'barba/...

Ma quale regola?

Era un indicatore di stile, un indicatore sociale, null'altro, le due pronunce si ascoltavano con continuità e nessuna regola le bloccava, salvo esigenze di eleganza personale.

E mio figlio dovrebbe imparare che a Genova gli occhiali sono detti "spëgetti" /spe:'dZetti/?

Ma non facciamo ridere!

Si dice "spegetti" /spe'dZetti/, non c'è nessuna vocale lunga...

Risulta chiaro che per imparare il genovese a codesto modo, reputo assai piú proficuo che mio figlio studi la terza, la quarta lingua europea, approfondisca altri studi...

Ho utilizzato lo spazio concessomi dal sito per tentare di risvegliare la coscienza di un'identitá.

Questo tipo di correzioni, che anche la Compagna potrebbe farsi carico di ospitare nel suo bollettino, non intendono perseguire un puro intento di precisazione e correzione linguistica che, per altro, alla Compagna dovrebbe interessare per missione, quanto diffondere, prima che le informazioni inesatte e confuse possano prevalere, un quadro storicamente corretto e definito della lingua di Genova,

una lingua che va assolutamente salvata in un contesto di valorizzazione dell'identitá e con correttezza linguistica che consenta anche alle future generazioni la possibilitá di fare proprio un patrimonio impeccabile sotto l'aspetto storico e linguistico.

Senza questi requisiti, temo che i nostri figli non saranno nemmeno piú da noi messi in grado di accostarsi al patrimonio delle opere letterarie scritte nella lingua di Genova.

MAGISTER 22/1/2001
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