turna ou sumarriu
N'ha scrîtu u Magister...
estrâeti daa curispundensa eletronnica de l'annu 2000



A distinsiun tra vài e andâ

À prupoxxitu d'a "Grammatica del genovese" d'u Pruf. Fiorenzo Toso duvve se ghe lêze:
pag.200 n.97 vaei 'valere': [...]
per il congiuntivo presente e l'imperativo mutua le forme del verbo anâ/andâ 'andare': che mi vagghe ecc. [...]

"Vagghe" non esiste piú a Genova e si usa, in sua vece, l'italianismo "vadde".
Ma il problema non è codesto.
Il fatto è che il verbo "vài" /'vaj/ a Genova non ha forme verbali mutuate da "anâ" /a'na:/.
A Genova, come in italiano, si usa anche "andare" nel significato di "valere" e "costare".

Basta aprire lo Zingarelli:
Si trova sotto andare:
est[ensivo] (come significato) costare, valere "questo tessuto va a mille lire il metro".

Anche a Genova si può dire:
"u va mille franchi ou mêtru" /u 'va mille 'fraNki 'ow 'me:tru/,
ma, se è implicita una valutazione professionale o un giudizio globale, non si può dire altro che:
"quellu zygòu u nu vàiva guâei" /'kwellu zy'gOw u 'nu 'vajva 'gwE:i/ (o espressioni meno vittoriane)
e "u nu l'é bun à fâse vài" /'u nu l e 'buN a 'fa:se 'vaj/.
Non credo proprio che in codeste frasi si possa sostituire il verbo "andare" !


turna ou sumàrriu

A cuniugasiun d'i verbi pài e vài

[...]
Per quanto attiene alle testimonianze del Novecento, oltre a quella del Parodi, Studi liguri, va citato l'Ageno che nei suoi Studi ligustici riporta a pag. 84:
"Abbiamo ancora i due monosillabi "pai" /'paj/ e "vai" /'vaj/ succedanei regolari (tenendo conto dell'evoluzione di /a'ej/ nel genovese urbano) delle forme verbali latine parere, valere, paretis e valetis, cioè, nel significato degli infiniti "sembrare" e "valere" e nelle due forme (omofone agli infiniti nel genovese urbano) "pai" /'paj/ e "vai" /'vaj/ , che stanno per "voi sembrate" e per "voi valete" (presente del modo indicativo).

Il Vocabolario delle parlate liguri a pag. 28 del Vol III <N-S> riporta l'arcaico "paei" /pa'éj/ per :
  • Varazze, Arenzano, Montebruno, Rapallo, Chiavari, Varese ligure, Maissana e Carro -
mentre riferisce per Genova Centro il solo "pai" /'paj/, come anche per :
  • Vobbia, Camogli, Favale di Malvaro, Lavagna, Sestri levante e Levanto.

Analogamente, il Vocabolario delle parlate liguri, alla pag. 47 del Vol. IV <T-Z> riporta l'antiquato "vaei" /va'éj/ per :
  • Arenzano, Montebruno e Varese ligure,

mentre riferisce per Genova Centro il solo "vai" /'vaj/, testimoniato anche per :
  • Ronco Scrivia, Campomorone, Chiavari, Lavagna, Sestri levante e Moneglia

Per quanto concerne i vocabolari, occorre dire che quelli dell'Ottocento (Olivieri, Casaccia, Bacigalupo) riportano ancora "paei" /pa'ej/ e "vaei" /va'ej/, anche se da un sommario spoglio delle coniugazioni riscontrate sui testi emerge che, assai probabilmente, la pronuncia in città era già pervenuta a /'paj/ e /'vaj/, come, per altro, testimonia il Parodi all'inizio del Novecento.

Per quanto riguarda il Novecento vanno considerati il Frisoni e il Gismondi.
  • Il Frisoni (inizio del Novecento) riporta già "vai" /'vaj/, ma, molto probabilmente per distrazione, trascrive dai vocabolari a lui precedenti il verbo sembrare ancora come "paei" /pa'ej/.
  • Il Gismondi - metà del Novecento - riporta ormai solamente "pai" e "vai".

    "Pai" /'paj/ corrisponde anche al sostantivo italiano "parere" nel significato di "consiglio" et c.
    Riguardo al verbo "vai" vanno corrette le seguenti affermazioni.
  • Il Vocabolario delle parlate liguri riporta che: "La 3 persona singolare, va, coincide con il verbo andare".
    Ciò risulta scorretto, perché la III persona singolare del presente indicativo di "vai" /'vaj/ è "u vâ" /'u 'va:/, da un antico "var", ed ha vocale lunga, a differenza del presente di "anâ" /a'na:/, che risulta essere "u va" /'u 'va/ con vocale breve e con la stessa pronuncia di "va" (indicativo) dell'italiano standard.
  • Nella grammatica del Toso si afferma che il verbo "vai": "Per il congiuntivo presente mutua le forme dal verbo anâ: che mi vagghe ...".
    L'affermazione riportata non è corretta relativamente al genovese urbano in cui, al congiuntivo presente, si hanno le forme, completamente regolari, "che mi vagge" /'ke 'mi 'vaddZe/ et c., con pronuncia di g palatale, esito regolare (secondo, ovviamente, le desinenze verbali adottate dal genovese) dal latino valea(m), valea(s), valea(t) , che fornisce "vagge" /'vaddZe/ - "vaggi" /'vaddZi/ , come il latino palea dette "paggia" /'paddZa/ et c.
    Inoltre, "che mi vagghe" non è piú presente nel genovese urbano, dove è, ormai, avvertito come contadinesco e sostituito dall'italianismo "che mi vadde".
    Si elenca di seguito un esempio puntuale mirato a dimostrare come l'inconsapevolezza della lingua urbana non consenta nemmeno piú di avere edizioni corrette delle poesie scritte nella lingua genovese che, per la stragrande maggioranza dei testi pervenuti, fu la variante cittadina.
    Il professor Toso riporta una poesia, certo non sublime, di uno spiantato marchese Doria - Luigi Doria - dell'800. Il titolo della poesia è "A l'amigo Gioanin".
    Cito un verso:

      Gioanin! No vaìmo insemme ùn-a rostia

    La m scempia di "vaimo" avrebbe già dovuto indicare l'intenzione dell'autore di indicare la pronuncia di "ai" come dittongo [discendente, cioè coll'accento tonico che cade sulla a].
    Contrariamente a ciò, l'accento è stato posto sull'i, mentre la forma urbana corretta è "vàimu" /'vajmu/.

    Risultato:
    con l'accento sull'i (iato) il verso risulta metricamente scorretto.
    Se si ripristina l'accento sull'a, cioè se si considera ai dittongo e si pronuncia, com'è corretto che sia, /'vajmu/ [coll'accento sulla a], il verso torna ad essere impeccabile.
    Mi pare che ciò dimostri a sufficienza l'ineludibilità di dover apprendere correttamente il genovese urbano: già non riusciamo piú a fornire edizioni corrette scritte in questa lingua.
    Relativamente al verbo "pai" occorre osservare che la forma di prima persona plurale del presente dell'indicativo "paimmo" /pa'immu/ indicata nella grammatica del Toso (pag.199 n.94) non esiste nel genovese urbano.
    Nel genovese urbano, infatti, "paímmu" /pa'immu/ è la prima persona plurale del verbo "paî" /pa'i:/ [coll'accento sulla i] che indica una laboriosa digestione.
    Il verbo è, ormai, poco usato, ma la sua forma verbale "paímmu", a Genova, non è assolutamente condivisa con il verbo "pai" = sembrare.

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    turna ou sumàrriu

    U plyrâle d'e pòule in -yn

    À prupoxxitu d'a "Grammatica del genovese" d'u Pruf. Fiorenzo Toso duvve se ghe lêze:
    pag.57 n.53 I nomi maschili in -un assumono al plurale la desinenza -uin:
    o zazzun [u zazüň] 'il digiuno' / i zazzuin [i zazüíň] 'i digiuni'.

    [...]
    Il plurale di "zazyn" /za'zyN/?
    A Genova è identico al singolare.
    Ho anche svolto sintetiche ricerche bibliografiche che illustro di seguito.
    Partiamo dall'antichità (Anonimo o Lucheto).

    Nell'edizione della Cocito si legge "Si ha l'attrazione dell'i verso la sillaba tonica al plurale dei sostantivi in -no e -ne ("troin, main"), quando la vocale accentata non è e, u /y/, i."
    Vengono citati quali plurali di quest'ultima classe ("ben, arcun").

    Nel vocabolario del Casaccia (edizione del 1851) si legge "çertidun" /sErti'dyN/ esplicitamente denotato quale plurale di "çertun" /sEr'tyN/.
    È una parola che tu stesso hai già usato - la d è, semplicemente, eufonica.

    La regola, inoltre, è sinteticamente esposta dal Parodi <Studi liguri, § 76, pag. 133 >.
    Cito letteralmente: "Dopo n (in genovese, ovviamente) cadono tutte le vocali, tranne a, ma l'i si propaggina nella sillaba tonica dei vocaboli piani: "'kén" da *'kajni, "'bwin" da *'buini, ma soltanto "'ben" (singolare e plurale) e cosí "za'zyn" = digiuno-i."

    Mi pare chiarissimo.

    Ho inoltre consultato il "Vocabolario delle parlate liguri", che riporta "zazzün" /za'zyN/ alla pag. 102 del Vol. III <N - S>.
    In realtà, il Vocabolario citato riporta un solo plurale, inserito in una breve frase attribuita alla parlata di Arenzano, di cui non ho cognizione diretta.
    Trascrivo, supponendo il testo indenne da problemi tipografici.
    Si legge "grèn za'züin", che dimostra, se il testo risulta corretto, due fenomeni contrastivi della parlata di Arenzano rispetto al genovese urbano:
  • il plurale di "gran" /graN/, pronunciato con "e" tonica aperta /E/, contrastivamente rispetto al genovese urbano che richiede il timbro di "e" chiusa - a Genova sarebbe "grén" /greN/;
  • il plurale "zazyin" /za'zHiN/, che non esiste nel genovese urbano, in cui il singolare e il plurale di "zazyn" /za'zyN/, come esposto sopra, risultano coincidenti.
    [...]


    turna ou sumàrriu

    L'agetîvu stucâesu

    À prupòxxitu de sta sestinn-a de "U papagallu d'e múnneghe" d'u Niculin Baçigalû, 1893,

    Òua se dava che, pe câxu strànniu,
    fra-e cazann-e d'u nostru scilidôru,
    se truvâva u famûzu Capitànniu
    diventòu pusesû d'u pôvou Lôru
    che, quantunque ordenâiu e 'n pô stucâesu
    ghe piaxéiva-e primíssie e u l'êa lecâesu.

    [...] "Stucâesu" significa o significò "fragile". Questo significato oggettivo e, quindi, molto soggetto ai condizionamenti ambientali, è stato il primo a divenire desueto. Diamine, non si era/è mica cosi' ignoranti da non sapere che si dice "fraggile"! Questo, piú o meno, deve essere stata l'attitudine mentale che ha incentivato l'oblio dell'uso.
    Ne esistono però altri due [di significati], il primo semanticamente piú vicino a quello esposto, l'altro un po' piú lontano. Oggi, risultano anch'essi - ritengo - desueti, ma essendo attinenti all'ambito delle definizioni psicologiche degli umani ed essendo divenuti quasi termini gergali, rimasero piú a lungo vitali.
    Quello piú simile è "affettato, lezioso", è ben comprensibile e ... non si attaglia per nulla al Capitano del poema.
    L'ultimo è per noi moderni molto meno comprensibile. Se prendimo in considerazione il fiorentino verace il verbo "frecciare" indica l'azione di chi domanda quattrini a prestito senza aver l'intenzione di restituirli. È distinto da "scroccare" - noto e usato anche nell'italiano di Genova -, perché questo verbo indica il consumo di beni materiali senza che vengano pagati, non l'acquisizione di denaro che non si intende restituire. A Genova si dice/diceva "stucâ" /stu'ka:/ per "frecciare" e tutti conoscevano l'impiego dell'aggettivo "stucâesu" per indicare - negativamente e quasi gergalmente - un'attitudine che, "soprattutto a Genova" (direbbero i non-genovesi) era socialmente riprovata e stigmatizzata. Quindi - e ciò si attaglia alla situazione oggettiva del Capitano descritta dal Bacigalupo - egli era "stucâesu" nella terza accezione dell'aggettivo. E abbiamo altresí prova dell'abominio morale di un tale giudizio. Infatti, il poeta tempera il giudizio dell'aggettivo anteponendogli il riduttivo "'n pô". Non mi dilungo sull'etimo germanico di "stock" = "bastone", che può bene indicare anche una freccia e che copre totalmente le accezioni che vennero utilizzate dal genovese. Del resto, anche in italiano standard, esiste "lo stocco", "la stoccata" et c.[...]

    Ricurdemmu ascí che i-âgetîvi "stucâesu" /stu'kE:su/ e "lecâesu" /le'kE:su/ (e "dagâesu", "cegâesu", "scanâesu" ...) gh'han a /s/ surda (o àspia) e nu pôean fâ a rimma cuâ parolla "angâezu" /aN'gE:zu/ ch'u gh'ha a /z/ (esse sunûa o duçe), ma che 'nt'e çerte grafîe de tîpu tradisiunâle a vêgne scrîta cuâ mâexima dexinensa d'e primme.


    turna ou sumàrriu

    U tinbru d'a /e/ seguîa da cunsunante nazâle

    À prupoxxitu d'a "Grammatica del genovese" d'u Pruf. Fiorenzo Toso duvve se ghe lêze:
    pag.20 n.23 Distribuzione e pronuncia delle vocali: particolarità
    [...] in sillaba chiusa da [ň] e [r] compare solo [è]: vende [vèňde] 'vendere', verso [vèrsu] 'verso; [...]
    pag.28 n.8 Accento fonico e accento tonico
    [...] Mediante l'accento fonico, in particolare, la è [si pronuncia] aperta [è] vèndilo [vèňdilu] 'venderlo' [...]
    pag.33 n.28 Vocali
    [...] il suono lungo di e aperta [è] è reso con æ. Come si è visto, quando sulla e va segnato l'accento tonico, esso è grave per la e aperta (èndego [èňdegu] 'indaco', èmbrexo [èňbrezu]'embrice')[...]

    Il timbro di /e/ seguita da nasale, nel genovese urbano, è sempre chiuso e pronunce di tipo aperto hanno sempre - e tuttora - incontrato l'ostracismo da parte di chi parla il genovese urbano e sono sempre state connotate come tratti di rusticitas.

    Il timbro di /e/ chiusa si incontra in parole che derivano dalla vocale latina "i", quali:
    "éndegu" /'eNdegu/ (it. "indaco"), "éndexu" /'eNdeZu/ (it. "indice" o "guardanido"), "énbrexu" /'eNbreZu/ (it. "embrice"), "strenze" /'streNze/ (it. "stringere"), "tenze" /'teNze/ (it. "tingere"), "tentu" /'teNtu/ (it. "tinto"), "çenta" /'seNta/ (it. "cintura"), "cumensu" /ku'meNsu/ (it. [io] comincio) et c.

    Ho volutamente conservato anche vocaboli ormai poco usati, perché ho inteso fondare la correttezza e l'indubitabilità dell'affermazione, utilizzando l'autorevolezza del Parodi che scrive quanto da me citato al § 19 - pag. 115 - dei suoi "Studi liguri".

    Analogamente, si ha sempre e solo timbro chiuso anche in derivazione dalla vocale latina "e" e si ha "vendu" /'veNdu/ (it. "vendo"), "sentu" e "çentu" /'seNtu/ (it. "sento" e "cento" - numero), "destendu" /des'teNdu/ (it. "stendo") e in tutte le altre occorrenze di cui è ricchissima la lingua genovese senza alcuna eccezione.

    Anche antichi esiti forniscono unicamente e chiusa, quali "centu" /'tSeNtu/ (it. "pianto") da "cianze" /'tSaNze/, "grendi" /'greNdi/ (plurale di "grande", oggigiorno meno usato), "chen" /'keN/ (it. "cani"), "guenn-a" /'gweNa/ (it. "guaina") et c.

    La precedente serie di esempi è tratta anch'essa dagli "Studi liguri" del Parodi - § 42, pag. 122.

    Il timbro aperto si riscontra invece nelle parole che, a seguito della caduta "storicamente" recente di erre palatale intervocalica hanno monottongato, cioè ridotto ad un solo timbro vocalico, le due vocali che erano cosí venute in contatto.

    Queste parole, secondo l'ortografia tradizionale vengono grafate col digramma æ, ma non quelle trattate in precedenza.

    E ciò viene fatto per fornire univoca indicazione al lettore che si tratta di due timbri vocalici distinti.

    Esempi di parole del secondo tipo risultano essere "ænn-a" /'ENNa/ (il termine classico per it. "sabbia"), "tagiæn" /ta'dZEN/ (it. "tagliatelle"), "fænn-a" /'fENNa/ (it. "farina"), "a Mænn-a" /'a 'mENNa/ (it. "la Marina"), "a Madænn-a" /'a ma'dENNa/ (it. "la Maddalena"), "scæn" /'skEN/ (it. "scalino" e "gradino" - sing. e pl.), "mæn" /'mEN/ (it. "marino", cioè odore e sapore che costituiva un difetto del caffè, ad esempio) ed altri su cui non intendo soffermarmi ora, perché mi pare che la distinzione tra le due classi di pronuncia sia netta ed inequivocabile per quanto concerne il genovese, cioè, appunto, la lingua di Genova.

    Della pronuncia chiusa di "e" seguita da nasale fa indubbia fede il blasone popolare, da me ascoltato innumerevoli volte all'epoca della mia fanciullezza:
    "Sun zeneize, rizu râeu, strenzu i denti e parlu ciâeu".
    /'suN ze'neize, 'ri:zu 'rE:u, 'streNzu 'i 'deNti 'e 'parlu 'tSE:u/.

    Qualsiasi modulazione aperta delle "e" seguite da nasali avrebbe, al meglio, scatenato ilarità.

    Questa, piaccia o non piaccia, risulta tuttora essere la pronuncia di Genova, cioè la pronuncia di quella lingua illustre che fu adottata dagli antichi - e meno antichi - poeti e che, se nota o appresa correttamente, ci consente tuttora di leggere e capire il patrimonio che ci è stato affidato.

    A ulteriore conferma di ciò, qualora non si ritenessero sufficienti le citazioni, le testimonianze e le rilevazioni dirette che chiunque può effettuare della pronuncia urbana del genovese, si può considerare un altro validissimo indicatore rappresentato dalla pronuncia locale - di Genova, intendo - della lingua italiana.

    A Genova, infatti, chi non si cura di attenersi alla pronuncia standard dell'italiano - e costituisce tuttora la maggioranza, nonostante il regresso del genovese parlato - pronuncia, senza alcuna esitazione, /'bé:ne/, /'tSénto/, /'sténdere/, /kon'ténto/ et c., [con la /e/ chiusa] mentre una pronuncia aderente allo standard o al fiorentino richiederebbe esattamente l'opposto [ovvero la /E/ aperta].

    E ciò, se mai ve ne fosse necessità, costituisce ulteriore conferma di quanto illustrato.


    turna ou sumàrriu

    U verbu "ziâ" e a tranxisiun daa vucâle /e/ aa semivucâle /j/ int'u zeneize yrban:

    [...]
    Sono d'accordo con te che i suoni vocalici si sono conservati (certamente anche a Genova), quando la vocale è tonica, ma sono da tempo arrivati a /j/ e non a /H/ [l'acca rovesciata dell'Alfabeto Fonetico Internazionale], non solamente nel caso della vocale /y/ ["u" alla francese]. Infatti, si dice "u zŷa" /u 'zy:a/ (it. "giura") e "u zêa" /u 'ze:a/ (it. "gela") per poi aversi, a Genova, gli omofoni "ziâ" /'zja:/ sia per "giurare" che per "gelare". Molte delle persone che ho sentito parlare nella mia infanzia erano nate negli ultimi due decenni del secolo XIX e il ricordo, che mi trasferirono, della pronuncia della generazione dei loro genitori può almeno risalire alla metà del secolo cui accenno. Analogamente, si dice "piâ" /'pja:/ per "pelare", "mondare", e le "piâe" /'pjE:/ non sono altro che castagne. È vero che nelle forme toniche "ritorna" il timbro originale della vocale e si dice "u stramŷa" /u stra'my:a/, "u nœa" /u 'nø:a/ (ma anche "u nŷa" /u 'ny:a/), "u peja" /u 'pejja/, "u zŷa" /u 'zy:a/ e "u zêa" /u 'ze:a/, già riportati. Un negoziante calvo era soprannominato "u sycca piaa" /u 'sykka 'pja:/ e - chi è di stretta pruderie vittoriana si astenga dal leggere - le "miande" si sono sempre pronunciate /'mjaNde/ e non altrimenti - almeno a Genova e da almeno 150 anni -.
    [...]
    Consentitemi di dissentire che le pronunce urbane del tipo "ziâ" /'zja:/ per "gelare" et c. siano di stampo plebeo. A parte il fatto che, a partire dagli anni '60 ho svolto inchieste, che includono medici, negozianti e un principe, desidero, perché almeno questo memo possa essere accettato, andare su fatti concreti. A un certo punto dell'evoluzione del genovese urbano si trovano forme verbali scritte "punzerà", "vunzerà", "laverò", "mangerò" , "anderò" et c. che, se indichiamo con /R/ la erre palatale di quei tempi [simile alla erre intervocalica degli Inglesi], saranno state pronunciate /u pundze'Ra/, /u vundze'Ra/, /'mi lave'RO/, /mi mandZe'RO/, /'mi ande'RO/ etc. Sono pronunce che si possono ancora raccogliere [a una certa distanza da Genova]. Proseguiamo. La caduta della /R/, in città almeno, ha fatto sí che, attraverso la transizione del tipo "u punzeà" /u puNze'a/, "u vunzeà" /u vuNze'a/, "mi laveò" /'mi lave'O/, "mi mangeò" /'mi maNdZe'O/, "mi andeò" /'mi aNde'O/ etc. (e anch'esse si possono ancora raccogliere [fuori Genova], ma non piú, da assai tempo, in ambito urbano), si sia passati, a Genova, alle attuali e uniche: "u punziâ" /u puN'zja:/, "u vunziâ" /u vuN'zja:/, "mi laviô" /mi la'vjO:/, "mi mangjô" /'mi maN'dZjO:/, "mi andiô" /'mi aN'djO:/ [tutte colla vocale finale lunga] e non altre, cari amici. È la benedetta/maledetta grafia che ci travia. E ciò che era "zerà", cioè /dze'Ra:/ non può che essere pervenuto a /'zja:/, come di fatto è, perché le evoluzioni nelle lingue sono fenomeni forti e se ne fregano (vogliate scusarmi per la scadimento del mio testo) se l'aggiornamento della grafia non è stato completo ed esaustivo. È chiaro che, su base di convenzione, si potrebbe ripristinare "andeò" e perfino "anderò". Sono state forme cittadine e nobilissime. Ma voi dite e scrivete "andiô", "laviô", "mangjô", "u punziâ", "u vunziâ", forme che sono le uniche attuali e alle quali si può attestare altrettanta nobiltà, se non antichità, di quelle da me citate in precedenza. Non fatevi traviare da una grafia che, in alcuni angoli della lingua, non è stata aggiornata!
    I fenomeni si deducono dalla realtà dei fatti e poi si decide come grafarli.
    Non deduciamo la realtà dalle grafie! Non facciamo come gli Inglesi, e talora i Francesi, che, acculturandosi e prendendo come norme costrittive le loro grafie (cosí arretrate rispetto all'evoluzione delle loro rispettive lingue) riesumano pronunce che non sono piú conformi rispetto allo stadio evolutivo attuale dei loro linguaggi!
    Se già nel medio evo si diceva "biaa" /'bja:/ e già all'epoca del Cavalli si scriveva "biòu" ciò che noi adesso diciamo "beâta" /be'a:ta/ e "beâtu" /be'a:tu/, ormai con un italianismo, vedete bene che il fenomeno evolutivo che ho cercato di delineare rimonta profondamente indietro nel nostro passato. E, consentitemi il ricordo di un'epoca in cui i cittadini del Centro urbano erano gelosi e fieri e intransigenti sulla loro lingua. Su di loro, principi o medici o portuali, una pronuncia del tipo /ze'a:/ avrebbe prodotto la stessa reazione di ostracismo linguistico - sbagliata, d'accordo, ma ancora rilevabile a quel tempo non cosí remoto - che avrebbe potuto suscitare un "pescoi" /pes'kOj/ - plurale [anziché "pescuéi"] - dei rivieraschi o un "bachèttu" /ba'kEttu/ [coll'/E/ aperta anziché chiusa] da parte di persone dell'entroterra o, ancora, una pronuncia aperta del tipo "chèn" /kEN/ [sempre coll'/E/ aperta anziché chiusa] per indicare il plurale della parola. Oggi, quelli che pure si professano "Genovesi" di tutto ciò se ne strafregano, ma ciò non è un buon motivo (se si vuole salvare la lingua) per non dare norme e poi anche grafie consistenti tra loro (tutti ormai scrivono "u laviâ" et c. ed è la stessa, stessissima cosa che "ziâ" nel senso di "gelare", se ci si vuole riflettere) e, soprattutto consistenti con uno stadio evolutivo che la nostra lingua ha ormai raggiunto da tempo.

    [...]
    In quanto alla questione relativa agli esiti del tipo /'zja:/ etc. [...] ho trattato ampiamente in memi successivi [...] la correttezza degli esiti urbani come evoluzione dovuta a potenti fenomemi propri della lingua: [...] non esiste mica un dogma in linguistica che prescriva che le lingue non possano/debbano presentare omofoni. Basti pensare al francese e ad altre lingue meno conosciute che non cito. [...] Se si prende a norma la dizione cittadina, essa andrebbe accolta in toto, specialmente quando fornisce evidenza di un fenomeno evolutivo dotato di una regolarità totale. [C'è chi vorrebbe] distinguere, almeno per iscritto, ciò che nello standard del genovese ha pronuncia identica. La posizione è ragionevole. Ma se i parlanti non hanno avvertito codesta necessità, ciò significa che il contesto ha sempre evitato una potenziale confusione. E se la parola parlata non ha dato adito a potenziali confusioni (altrimenti si sarebbe avuta una reazione nel parlato) pensate che la lingua scritta possieda minore potere di contestualità?

    [...]
    Volevo riflettere con voi che anche voi, anche se non sempre in forma esplicita, "praticate praticamente" quanto io ho espresso per iscritto. Se scrivete "ôevia", "léttia", "lettiatŷa", "eviâ" etc., è ovvio che vi attenete (e correttamente) a quanto io ho cercato di verbalizzare. La /e/ atona (cioè non colpita dall'accento principale della parola) seguita da /a/, da molto tempo si è mutata in /ja:/ e voi ne fate una prassi e vi aderite nella vostra scrittura. Per altro, non si tratta di un fenomeno peculiare del genovese (che dimostra in ciò una regolarità sostanzialmente totale, a parte gli italianismi degli ultimi tempi), ma di quasi tutta l'Italia. Il fiorentino e poi il toscano e poi l'italiano hanno avuto lo stesso fenomeno. Dal latino "vinea" e "pinea" si sono avute "vinja" e "pinja" e, poi, "vigna" e "pigna", esattamente come in genovese. Solo che in fiorentino si trovano molti meno esempi che in genovese, perché il genovese urbano, per una sua dinamica interna, ha dovuto subire il travaglio dell'espulsione dell'erre palatale intervocalica (in cui erano confluite sia l'erre che l'elle intervocaliche) ed è pervenuto alle forme di cui sopra, con una regolarità totale nel suo sviluppo autentico e con una reazione a catena, nel senso delle numerossime occorrenze a fronte di quelle relativamente poche del "fiorentino": partendo da pronunce quali /'ø:veRa/, /let'tera/, /dø:ve'Ra/, tutte documentate negli scritti antichi e tuttora (non a Genova, ribadisco) riscontrabili sul territorio. Infine, se voi ponete mente a parole veracemente genovesi nella loro pronuncia, dovrete concordare che l'unica pronuncia urbana dell'oggetto "setaccio" (e chi piú si ricorda a che cosa serviva nelle case!) è "siâsu" /sja:su/ e non altra, e che "çiôtu" /'sjO:tu/ (mai pronunciato diversamente a Genova) non è solo lo "sporcaccione" (anche in senso morale), ma possiede il significato specifico e neutro della parola italiana "cerotto". Nel "setaccio", a Genova, si è persa la /t/, non la /R/, ma il fenomeno è lo stesso. Anche "çiòula" /'sjOula/ ha la stessa motivazione, ma è un pochino piú complicata e ve la risparmio. Ciò che è certo è che nessuno a Genova (e da assai tempo e nemmeno voi) pronuncia o pronunciò "seassu" /se'assu/ né "çeottu" /se'Ottu/ etc.
    Credo di avervi fornito l'evidenza di un panorama di regolarità totale (esclusi, ovviamente, gli italianismi piú o meno antichi, ma questo attiene allo stile e non alla fonetica su cui ragioniamo) che voi, implicitamente e correttamente, avete già fatto vostro e mettete in pratica esemplarmente.[...] ma per la cui esplicita accettazione - nonostante la sua enorme vastità per il genovese - pare si abbia una sorta di remora od altro.

    [...]
    Sull'autonomia/distanza dall'italiano il discorso risulta, a mio avviso, ancora piú complesso e non mi sento di liquidarlo ora in due battute. Ma perché, se sta tanto a cuore anche questo aspetto, ho trovato tante difficoltà per aver segnalato verbi che cambiano pronuncia della vocale - a seconda che sia tonica o atona -, che possono essere, di conseguenza, grafati in modo differente e che - visibilio! - in alcune forme danno luogo a degli omofoni, di cui l'italiano standard è praticamente privo? Piú lontani di cosí dall'"italiano"!

    [...]
    Quando voi vi scrivete e usate forme quali "u l'àiva" e/o "u sàiva" etc., - si può discutere sullo stile di queste forme, ma questo non sarebbe un problema di fonetica -, voi mettete in pratica una trasformazione, ormai assai antica, che rifiuta, nella parlata urbana /-aej/ e lo rende sempre, da assai tempo, certamente da piú di un secolo, in /aj/. Infatti /a'vejva/ --> /a'ejva/ (con la caduta di "v" intervocalico tipica dello stile popolare --> /'ajva/ fino alla successiva caduta della residua "v" --> /u l 'ajja/ di stile ancora piú popolare. I cosiddetti "borghesi" hanno sempre continuato a pronunciare /a'veiva/. Idem per "sàiva" che è, invece, forma popolare e, per di piú, totalmente regolare. Mi spiego. /sa'Rejva/ --> /sa'ejva/ --> /'sajva/.
    /-aej/ evolve sempre in /-aj/.
    Non ho evidenze di una perdita ulteriore di "v", perché, qui, si andrebbe a collidere con la pronuncia arcaica del verbo "salutare", propria, evidentemente, un tempo, anche del Centro urbano e da me ormai raccolta solamente in frasi stereotipe quali i detti locali:
    "Pasòu u câu de Portufin, mugê te saju che sun fantin".
    /pa'sOu 'u 'ka:u 'de 'pOrtu'fiN, mu'dZe: 'te 'sajju 'ke 'suN faN'tiN/
    dedicato alla "fedeltà matrimoniale" dei marinai, perché si sa che
    "E mugê d'i mainâe nu sun né víddue né spuzâe".
    /e mu'dZe: d i maj'nE 'nu 'suN 'ne 'viddwe 'ne spu'zE/.
    Il detto è stato da me raccolto col "" italiano e non coll'arcaico "ni" e come tale è stato trascritto.

    [...]
    Tieni conto che la regola generale per la formazione del condizionale - non esistente in Latino - è: infinito+passato, che si specializza nel fiorentino e nel genovese, rispettivamente, come passato remoto e imperfetto. Infatti in fiorentino si dice "avrebbe", "sarebbe", "farebbe", forme autoesplicative.
    La regolarità di molte strutture interne della lingua genovese è impressionante. I "borghesi" di cui sopra hanno sempre pronunciato /sa'jejva/ che non è forma regolare, bensí analogica, plasmata per analogia su /ande'Rejva/ --> /ande'ejva/ --> /an'djejva/ con la "famosa" regola su cui tanto ci siamo accaniti, ma la cui evidenza risplende come la luce del sole:
    /e/ + vocale /j/ + vocale

    [...]
    Ti faccio notare che la vera forma "viâxa" /vja:Za/, oggi praticamente desueta e sconosciuta, [per "e œve"] sarebbe /j 'ø:ve/, che veniva scritta proprio con la lettera "i" e cioè "i œve".
    Vedi che la regola dell'arcifonema "e" non veniva bloccata - quando non si parlava ancora "staccato" - dalla separazione tra parole e si applicava anche in codesti casi.[...]
    La consistenza e l'equilibrio raggiunto dalla lingua era totale.
    Due vocali che si incontrano o danno dittonghi ascendenti, come in "i œve" /j 'ø:ve/, o discendenti.
    E se dopo si articola una consonante, la sua intensità è scempia.
    Questa è la mamma di tutte le regole.

    [...]
    "biòu" [nel sonetto del Cavalli "Lengua zeneize", 1635] corrisponde a "beato" e, come talora accade di alcune parole delle grafia antiche, non riesce a "mascherare" o a "italianizzare" la lingua parlata dell'epoca. Ciò significa, a mio modesto avviso, che già esisteva, per lo meno nel parlato urbano, il dittongo "-òu" /Ow/ nei participi passati et c. e che, se c'era la /w/ finale, le "o" finali, per lo meno in città, si pronunciavano già /u/. In realtà penso fosse già /'bjOw/ [monosillabo]. Se leggi secondo la metrica, non trovi /'bjOu/, ma /bi'Ow/ [bisillabo], ma penso semplicemente che al poeta occorressero due sillabe - cioè /bi'Ow/ anziché /'bjOw/ - per far tornare il verso, se no si sarebbe avuta la forma "beou" /be'Ow/. Vedi che le forme "ziòu" /'zjOu/ e "siòu" /'sjOu/, equivalenti a "gelato" e "sudato" possono tranquillamente rimontare a ben oltre i 150 anni di cui mi ero lasciato andare a formulare una stima.


    turna ou sumàrriu


    U plyrâle d'e pòule terminante in -an

    [...]
    Nel plurale delle parole in "-an", la pronuncia è chiusa e non lunga (essendo anche la sillaba chiusa) e mi aspetterei "-en". La pronuncia cittadina è sempre chiusa, si hanno cioè "Italien" /Ita'ljéN/, "chen" /'kéN/ (come plurale di /'kan/) etc.
    Quando c'è "-æn" /-EN/, c'è anche al singolare: "scæn" /'skEN/ (it. "scalino", "gradino") è uguale al singolare e al plurale, perché deriva da un antico dittongo che si è chiuso. Ma "san" /'saN/ fa al plurale "sen" /'seN/ (/e/ chiusa), "Napulitan" /napuli'taN/ fa al plurale "Napuliten" /napulit'eN/ etc.
    Ti segnalo, per il loro interesse linguistico, due frasi di scherno (politicamente scorrette), che ancora si potevano udire a Genova all'epoca della mia infanzia e in cui, genericamente, "Napuliten" veniva usato per indicare le popolazioni meridionali.
    Esse erano:
    "Napuliten se sciýscian u nâzu cuê muen."
    /napuli'teN se 'SySSaN u na:zu kwe: 'mweN/
    oppure
    "Napuliten màngian a pasta cuê muen."
    /napuli'teN 'maNdZaN a 'pasta 'kwe: 'mweN/

    A causa della rima dell'invettiva, si era conservato il plurale "muen" /'mweN/ come stereotipo anche da parte di parlanti per cui nella lingua comune "man" era ormai tanto singolare quanto plurale. Comunque, singolare "-an" /-aN/, plurale "-en" /-eN/.

    [...]
    Anticamente non si sono quasi fatte ricerche sul territorio e, ormai, è abbastanza tardi, perché i potenziali informatori crepano (l'uomo non è fatto per durare, nemmeno chi potrebbe fare da informatore per eventuali ricercatori di codeste cose).
    Anch'io recentemente ho notato didascalie in un museo in cui veniva usato l'ormai per noi "famoso" digramma "æ" anche in plurali che non dovrebbero averlo e che ritengo non l'abbiano nemmeno mai avuto nella grafia tradizionale. Se leggi un po' di poeti, vedi che non usano "æ" in questi casi. Anche il Cavalli, nel sonetto politicamente scorretto che ti ho inviato ["Cento poæra de buœ..."], pur usando già il digramma "æ", scrive "Toschen" ciò che, all'epoca sua, sarà stato /tuS'keN/ e non altro.
    A parte questo, sulla pronuncia urbana (tuttora ampiamente riscontrabile) non possono esservi dubbi.
    E che diamine!
    "-en" plurale di "-an" ha pronuncia stretta e breve e i ricordi di invettive popolari che ti ho proposto dimostrano chiaramente che è una pronuncia tuttora ben salda mantenutasi ben radicata dal passato. Comunque, su questo non c'è bisogno di discutere, perché troveresti in città innumerevoli conferme e non capisco come possa essere scritto diversamente - forse è un malinteso -.

    [...]
    Anche in un ambito di grafia tradizionale, non si può grafare "æ" ciò che non è né lungo né aperto - cioè non possiede nessuna delle due qualità distintive del digramma "æ"! [...]
    Fammi sapere, perché se veramente vanno a giro degli "æ" non "legittimati", sarebbe azione nobile stopparli.

    [...]
    1)E.G. Parodi "Studi liguri. 3 . Il dialetto di Genova dal sec. XVI ai giorni nostri", in Archivio glottologico italiano, XVI , 1.902 - 1.905 (un'autorità in materia), citato e utilizzato da chi si occupa professionalmente di aspetti linguistici, a pag.122 §42, che tratta della /e/ tonica chiusa nel genovese, riporta per il genovese attuale /keN/ (ed esclusivamente questa pronuncia).
    Il Casaccia, autore - come tu sai - di un noto dizionario, in "Alcune regole grammaticali intorno al dialetto genovese" premesse al Dizionario genovese-italiano, riporta, a proposito "Della formazione del plurale di nomi", quanto segue, da me adesso citato letteralmente:
    "an si cangerà in en con l'e stretta, come: can, cane, chen, cani; tian, tegame, tien, tegami; villan, villano, villen, villani."
    Ho riferito testualmente.
    Oltre a ciò, un simpatico vecchietto, originario di Apparizione, monte Fasce, ma, comunque, Comune di Genova, da me interpellato in merito, mi ha voluto fornire la sua risposta in rima, riferendosi, evidentemente, agli immediati dintorni della città:
    "finn-a i paizen ghe dîxan chen" /'fiNNa 'i paj'zeN 'ghe 'di:ZaN keN/.
    2) Elenco di seguito alcuni brevi versi, probabilmente non sublimi, che ho individuato, sfogliando a caso, ma che valgono quali testimonianze relative alla pronuncia e alla grafia tradizionale.
    M.Piaggio scrive:
    "Giastemmando comme chen
    per no poei vinçe i Cristien
    "
    e, fin qui, avremmo solamente una conferma della grafia. Ma lo stesso poeta scrive pure:
    "Ma sciò Hussein pénsighe ben
    no te fiâ da to fortunn-a,
    perché a Croxe di Cristien
    a l'é stuffa da to lunn-a, ...
    "
    .
    E qui il cerchio si chiude, perché tutti sanno che a Genova, anche nella pronuncia locale dell'italiano standard, si dice "béne" e non "bène", come pronuncerebbero i miei amici fiorentini.
    Quindi: /'keN/, /kri'stjeN/, /'beN/, chiusi, brevi, che fanno rima tra loro.
    Inoltre, tra le antiche poesie pubblicate dal prof. Toso (che, oltre a moltissimi meriti di studioso, possiede pure quello di avere aperto al pubblico scrigni finora praticamente inaccessibili ai non specialisti) si legge:
    Beneita e benexia quella vittoria
    che ha riportou sto populo da ben;
    Maledetti sen sempre quelli chen,
    di quae ne farà sprexio un di' l'istoria
    .
    È un anonimo che celebra l'episodio di Balilla. Anche qui /'beN/ e /'keN/, rimano e la grafia tradizionale è chen. Ci sarà ben stato un motivo per cui, in epoche in cui ormai era invalso il "famoso" digramma "æ" per denotare una /E:/ aperta e lunga, esso non venisse usato nel caso di "chen", "Cristien" etc. La pronuncia non lo consentiva.
    Bada che, per quelli che potremmo definire genovesi DOC quello che è, nella toponomastica ufficiale, "vico Notari" viene tuttora chiamato "u caruggiu d'i scriven" /u ka'ruddZu 'd i skri'veN/, con vocale /e/ stretta, evidentemente.
    [...]
    P.S.: non mi sono dilungato a riportare quanto si riscontra in altri scrittori autorevoli, quali Giacomo Devoto, Gerhard Rohlfs e G. Isaia Ascoli, che riportano per il genovese, rispettivamente, la grafia chen e le pronunce /skri'ven/, /Tu'sken/ et c.
  • turna 'n çimma