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Osservazioni sulla grafia
di
Giovanni Casaccia

Premesse ad una vecchia edizione di poesie del Piaggio (Genova, F.lli Pagano, 1887) si trovano alcune note grammaticali, opera di Giovanni Casaccia (1813 - 1882), definite, davvero un po’ esageratamente,
TRATTATO D’ORTOGRAFIA GENOVESE.
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Non sappiamo quanto, all’epoca del Casaccia, le scienze linguistiche fossero diffuse a Genova (questa è materia su cui possono fornirci dati gli studiosi). Globalmente, la proposta ortografica che offre il Casaccia non può certo definirsi brillante. Sono molte le imprecisioni e gli errori contenuti in un testo, per altro, di limitata estensione. Da un loro esame si può iniziare a comprendere da dove provenga buona parte delle incongruenze delle grafie conformi alle proposte del Casaccia.
Proviamo ad entrare nel merito di quanto il Casaccia stesso scrive:

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La cediglia
La cediglia



CAPO PRIMO, Dell’Alfabeto genovese e sua pronunzia, punto 1
"Il ç, che si prepone soltanto alle vocali e i, si pronunzia come un's all'uso francese; così çetron melarancia, conçerto, concerto, çinque, cinque, ecc. si pronuncieranno setron, conserto, sinque, ecc."

Qui non si tratta di un errore fondamentale, ma di una scelta grafica assai discutibile e totalmente incoerente. Se si intendesse perseguire una grafia etimologica, non si capisce proprio perché prescriverlo unicamente davanti alle vocali "e" ed "i" e non tutte le volte che si debba indicare un fonema /s/ derivato da /ts/ (zeta toscana aspra come in "tazza").
La lingua francese, cui il Casaccia fa riferimento, almeno sotto questo aspetto, risulta essere molto piú coerente e adotta la "ç" laddove l’etimologia la richieda, ad esempio, anche davanti ad "a": infatti in francese si scrive "ça", "français", etc. Anche gli scrittori genovesi di ancien régime (prima della Rivoluzione Francese, dunque precedenti al Casaccia) scrivevano tranquillissimamente, in omaggio all’etimo, "ciaçça" /'tSassa/ (it. piazza), "belleçça" /be'lessa/ (it. bellezza), "consolaçion" /kuNsula'sjuN/ (it. consolazione) etc...
O si adotta una grafia fonetica, ed allora il fonema /s/ si indica sempre col grafema "s",
oppure si adotta una grafia etimologica, e il simbolo "ç" va impiegato in tutte le sue effettive occorrenze, cioé anche davanti ad "a", come in "stiçça" /'stissa/ (it. goccia), "sença" /'seNsa/ (it. senza), "merçâ" /mer'sa:/ (it. merciaio), "incomençâ" /iNKumeN'sa:/ (it. incominciare), "ammaçça" /a'massa/ (it. ammazza), e davanti ad "o", come in "spaççoie" /spa'swi:je/ (it. scope), "garçoin" /gar'swiN/ (it. ragazzi), "Castellaçço" /kaste'lassu/ (it. Castellaccio), come avveniva nelle grafie tradizionali precedenti.
È comunque un dato di fatto che a Genova, da molti secoli, la "ç" si pronuncia /s/ (esse aspra).

CAPO PRIMO, Dell’Alfabeto genovese e sua pronunzia, punto 10
"La z ha due suoni, un dolce e un aspro. Dolce, come in zeo, gelo, zin, riccio marino, zutta, fondaccio ecc. Aspro, come in ambizion, annunzio, ozio e simili."

Qui il Casaccia riesce ad incastrarsi da sé e si produce in un bel tonfo dal punto di vista della consistenza logica. Egli stesso aveva imposto questa restrizione, anche se priva di alcuna logica e che non si ritiene di poter condividere: il grafema ç solamente davanti ad e ed i.
E allora perché scrive "ambizion", "annunzio" e "ozio"?
Secondo la sua grafia si dovrebbero scrivere, quanto meno, "ambiçion", "annunçio" e "oçio".
È andato da sé ad identificare solo esempi in cui compare la vocale "i" che, secondo la sua regola strampalata, richiederebbe l’adozione della "ç"!

Si mantiene il grafema "ç" delle grafie antiche, ma non si riesce a conservare continuità con esse né ad essere conformi alle etimologie della lingua:
è davvero troppo!

Infatti, tanto "çinque" /'siNkwe/, "cunçertu" /kuN'sErtu/ e "çetrun" /se'truN/ quanto "anbiçiun" /aNbi'sjuN/, "anúnçiu" /a'nuNsju/ e "oççiu" /'Ossju/, sebbene etimologicamente eterogenee, dal momento che provengono dalle parole latine "quinque", "concentu(m)", "citru(m)", "ambitione(m)", "adnuntiu(m)", "otiu(m)", nel genovese antico presentavano tutte lo stesso fonema /ts/ (zeta aspra), indicato appunto con la "ç", ed erano pronunciate:
/'tsiNkwe/, /kuN'tsErtu/, /tse'truN/, /aNbi'tsjuN/, /a'nuNtsju/ e /'Ottsju/.
Esistono tuttora zone della Liguria geograficamente relegate che hanno conservato la pronuncia originaria della cediglia (cioè, /ts/): queste parlate sono importanti perché sono ancora in grado di fornire dati sugli antichi stadi della lingua. (La pronuncia arcaica di ç è trattata anche in questo articolo).
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L'ESSE e la ZETA
L'ESSE e la ZETA



CAPO PRIMO, Dell’Alfabeto genovese e sua pronunzia, punto 6
"La s ha pur essa due suoni, un dolce e un aspro. Chiamasi s dolce quella che pronunziandosi rende il suono quasi d'una z, e ciò avviene quando nel mezzo o nell’ultima sillaba della parola essa vien preceduta da un dittongo o da una vocale non accentuata, cosí ase, casa, tesöu, peiso, difeisa, besêugno, ecc. si pronunciano come se fossero scritte aze, caza, tezöu, peizo, difeiza, bezêugno [...]"

Quanto sopra é corretto solo in merito alla pronuncia, ma è sbagliata l’interpretazione che ne offre. Non è affatto vero che in "ase" /'a:ze/, "casa" /'ka:za/, "peiso" /'pejzu/ e "difeisa" /di'fejza/ la /z/ (esse sonora), sia preceduta da una sillaba non accentuata, cioè atona, cioè priva d’accento. Tutt’altro!
Nei 4 esempi citati la /z/ è sempre preceduta da sillabe accentuate, cioè toniche, in netto contrasto con la regola esposta dall’autore.

CAPO PRIMO, Dell’Alfabeto genovese e sua pronunzia, punto 6
"[...] Si pronunciano con s aspra le sillabe sa, se, si, so, quando nel mezzo o nell’ultima sillaba della parola sono precedute da una vocale accentuata, come: fäso, falso, ëse, essere, imböso, capovolto, cäsetta, calzetta, sovvegnîse, ricordarsi, ecc."

Risulta chiaro che, oltre ad essere intrinsecamente inconsistenti, le regolette proposte dall’autore non valgono proprio nulla. Infatti, "ëse", secondo la regola enunciata verrebbe a trovarsi nella stessa identica condizione di "ase", cioè grafema "s" preceduto da vocale tonica. Eppure, la prima si pronuncia /'e:se/ coll'esse aspra e la seconda /'a:ze/ coll'esse dolce!
Anche "casa" e "fäsa" verrebbero a trovarsi, relativamente alla pseudoregola proposta dal Casaccia, nella stessa situazione, ma anche in questi 2 casi si ha contrasto e le parole citate si pronunciano, rispettivamente /'ka:za/ e /'fa:sa/.
Evidentemente neppure al Casaccia riesce di sostituire con pseudoregole vergate di furia un serio studio sulle origini e l’evoluzione della lingua genovese. Non si possono liquidare con brevi tratti di penna questioni di una certa complessità: sarebbe troppo semplicistico davvero, anche per il Casaccia !
Anche da qui origina l’incongruenza e l’inconsistenza, ormai storiche, di grafie che contemplano l’uso di tre differenti grafemi s, z e ç per indicare lo stesso fonema /s/ (esse aspra), con l’ovvia ed ulteriore aggravante che s e z vengono altresí impiegati per indicare la /z/ (esse sonora).

Al limite, potrebbe, forse, risultare comprensibile il mantenimento della s etimologica per indicare il fonema /z/ (esse sonora) dato che in quasi tutta l’Italia settentrionale, indipendentemente dalla pronuncia standard della lingua italiana, le s intervocaliche si pronunciano sonore.

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L'accento circonflesso e la dieresi
L'accento circonflesso e la dieresi



CAPO II, Degli Accenti
"Il circonflesso ha nel nostro dialetto lo stesso valore che nella lingua francese, cioè strascica la vocale a cui vien sovrapposto, così andâ, pappê, staffî, ecc., si pronunciano come se fossero scritte: andaa, pappee, staffii."

Ma perché allora, cosí come scrive "andâ" /aN'da:/, non scrive allo stesso modo "âse", anzi, meglio, "âze" /'a:ze/ e "câsa", anzi, meglio, "câza" /'Ka:za/, dal momento che condividono la stessa identica /a:/ lunga e tonica?

CAPO II, Degli Accenti
"La dieresi serve a distinguere il significato della parola [...]"

I casi di omofonia (pronunce uguali, ma significati diversi) che si presentano nella lingua genovese vengono dal Casaccia distinti e risolti mediante l’adozione della dieresi: però il Casaccia per primo non rispetta le sue proprie scelte grafiche e scrive "tesöu" /te'zO:u/, "fäso" /'fa:su/, "ëse" /'e:se/, "imböso" /iN'bO:su/ e "sovvegnïse" /suve'gni:se/ mentre, secondo le scelte grafiche prescritte dall’autore, essendo le vocali tutte toniche e non presentandosi casi di possibili omofonie, occorrerebbe grafare "tesôo", "fâso", "êse", "imbôso" e "sovvegnîse".
Inoltre la /a:/ lunga e tonica di "fäso" /'fa:su/ è identica a quella di "andâ" /aN'da:/ e anche a quelle di "ase" /'a:ze/ e "casa" /'ka:za/:

3 realizzazioni differenti per lo stesso fonema, la vocale /a:/ lunga e tonica,
in assenza di possibili omofonie!
Un po’ troppe!

Si noti ancora che in "pappê" /pa'pe:/ e "staffî" /sta'fi:/, il raddoppiamento consonantico non esiste nella pronuncia e, ad esempio, nel caso di "pappê" non può nemmeno essere giustificato sotto l’aspetto etimologico.

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L'O stretto e l'U francese
L'O stretto e l'U francese



CAPO PRIMO, Dell’Alfabeto genovese e sua pronunzia, punto 5
"L’o, alla stessa maniera dell’e, ha pur due suoni come nella lingua italiana, l’uno aperto o largo, e l’altro chiuso.
CAPO II, Degli Accenti
[...] L’ô si pronuncia sempre stretto tanto in mezzo delle parole quanto in fine di esse, come: gôa, demôa, amô, sô, dottô. [...]"

Questa distinzione è contestabile.
Il genovese letterario/urbano non possiede il suono di [o] stretto, e la vocale definita "o chiuso" o "stretto" dal Casaccia non può che identificarsi con la [u] (vocale chiusa posteriore arrotondata) della pronuncia genovese. Tutte le testimonianze raccolte da chi fu in grado di conoscere persone che vissero all’epoca in cui vennero scritte le note grammaticali del Casaccia concordano sul fatto che la pronuncia non fosse altrimenti da [u].
Le parole "gôa", "demôa", "amô", "sô" e "dottô", si pronunciano /'gu:a/, /de'mu:a/, /a'mu:/, /'su:/ e /du'tu:/ ed andrebbero dunque scritte "gûa", "demûa", "amû", "" e "dutû" con l’accento circonflesso per indicare la lunghezza della vocale tonica.

CAPO II, Degli Accenti
"[...] L’û [...] si pronuncierà come lu francese, non però strascinato quando sarà in mezzo della parola, come dûbbio, mûtto, sciûto, pûa, polvere; e strascinato quando sará in fine di essa, come: mû, cû, pittamû, pittima, spilorcio.
"

Purtroppo un’altra regola errata, secondo la quale il fonema /y/ in mezzo della parola non sarebbe mai lungo. La regola, ovviamente, nella sua rozzezza, è sbagliata e non può fornire risultati corretti, tant’è vero che dei 4 esempi esposti il 50%, cioè 2 su 4, sono controesempi ed indicano chiaramente che la regola non si regge: "dûbbio" /'dybbju/ e "mûtto" /'myttu/, hanno la vocale /y/ breve, mentre "sciûto" /'Sy:tu/ e "pûa" /'py:a/ hanno la vocale /y/ lunga.
In genovese una vocale lunga implica lo scempiamento della consonante successiva e infatti il Casaccia, forse inconsapevolmente, scrive "sciûto" con una t sola.
Le ipersemplificazioni soggettive, purtroppo, conducono a prescrizioni cervellotiche ed errate!

L’accento circonflesso, viene incongruamente usato sia per indicare la lunghezza delle vocali (uso canonico, se cosí si accetta di definirlo, sancito a partire dalla lingua greca classica, la prima lingua di cultura occidentale) sia per indicare, se sovrapposto alla vocale "u", il fonema /y/ ("û" = /y/), cioè, il timbro labializzato della vocale /i/.
È una scelta grafica illogica e foriera di incongruenze negative, perché il fonema /y/ può essere sia breve, /y/, che lungo /y:/:

ma se si scrive sempre "û" come si fa a sapere quando è breve e quando è lungo?

In "mûtto" /'myttu/ si ha il fonema breve (/y/), ma in "pûa" /'py:a/ si ha il fonema lungo (/y:/).
La grafia esposta cela completamente il fenomeno.
Il riferimento alla grafia francese è inappropriato. Il francese, infatti, conserva, a tutt’oggi, una grafia storica etimologica o addirittura paraetimologica, cioè, con ricostruzioni arbitrarie. Non ci si sentirebbe certo di proporla a modello, ma, relativamente alla chiara distinzione tra i fonemi /u/ ed /y/, essa risulta ben superiore alle grafie tradizionalmente proposte per il genovese. Il francese adotta, ad esempio, ad imitazione del greco classico, "u" per indicare il fonema /y/, e "ou" per indicare il fonema /u/ (come, ad esempio, alcune grafie piemontesi). Nel genovese "ou" è invalso ad indicare, correttamente, un dittongo assai diffuso nella lingua, e sarebbe, di conseguenza, inutilizzabile per indicare il fonema /u/.

Pertanto, se in genovese /u/ e /y/ sono due fonemi ben distinti, non confondibili, e si presentano sia brevi, sia lunghi, è necessario poterli segnalare graficamente tutti e quattro, perché la differenza nella durata delle vocali genovesi, è funzionale, cioè, può cambiare significato della parola
(es. "d'u", /u/ breve = it. del; "" /u:/ lunga = it. dolore).
Sarebbe, quindi, appropriato e non ambiguo indicare semplicemente mediante i simboli grafici "u" ed "y" i due fonemi vocalici /u/ e /y/, segnalandone la loro durata, ad esempio, mediante l’accento circonflesso per indicare quando una vocale è lunga:

"ruttu" /u/ (it. rotto) - "gûa" /u:/ (it. gola)
"tyttu" /y/ (it. tutto) - "pŷa" /y:/ (it. polvere)

Sarebbe l’unico modo per risolvere tutta una serie di immotivate incongruenze grafiche.

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