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Persecuzione, oblio e mistificazione

  • Premessa
  • "Chen" e "scæn": due origini diverse
  • La grafia "in cæn"
  • Il caso del "Trionfo dro popolo zeneise"

  • 2 novembre 2001
    È da molto tempo, ormai, che la lingua letteraria/urbana genovese non vive giorni felici.
    Abbiamo, temporalmente, alle nostre spalle, un recentissimo passato in cui il discredito nei suoi confronti era forte, scontato, radicato, ormai in tutte le classsi sociali, tale da interromperne la plurisecolare trasmissione diretta.
    E le lingue, senza trasmissione diretta e l'ambiente che essa, come conseguenza, crea, non sopravvivono.
    Possiamo chiudere gli occhi di fronte alla realtà.
    Ne varia la nostra percezione.
    La realtà resta.
    Si ribadisce, però, che, anche, all'epoca del discredito sociale sopra ricordato e dell'allontanamento dei parlanti dalla lingua , il genovese, se pure perseguitato, era riconoscuito come tale, dotato di proprie e caratteristiche individualità ed identità, ben note, chiare e specifiche, che nessuno metteva in dubbio, anche se ritenute socialmente inadatte, inferiori.
    Non si ritiene esagerata la definizione di persecuzione, anche se, in altre zone dell'Europa e del mondo, il fenomeno, storicamente, ha assunto aspetti piú radicali.
    Non si sta descrivendo la preistoria ...
    Si sta semplicemente riferendo ciò che è avvenuto a Genova fino ad alcuni anni or sono ...
    Essa, all'inizio, venne esattamente avvertita come tale, poi, proprio come effetto indotto della persecuzione stessa e del senso di allontanamento dal genovese che, inevitabilmente, si generò, anche la sua percezione risultò attenuata.
    I livelli di ostracismo e discredito si affermarono capillarmente, si instaurarono all'interno delle famiglie, causarono la decisione netta e irrevocabile dei genitori di non trasmettere la lingua ai figli, fino a richiedere che essa non venisse parlata in loro presenza non solo dai membri della famiglia, ma anche da eventuali domestiche etc...
    Si originò cioè una vera e propria censura da parte degli altri membri della famiglia ovvero un'autocensura da parte di chi avrebbe ancora avuto intenzione di continuare ad avvalersi del genovese come valido veicolo di comunicazione.
    Però all'epoca nessuno poneva in dubbio o tentava di alterare l'essenza della lingua e la relativa descrizione.
    Se mai, il tentativo era di somministarle l'eutanasia piú dolce possibile mediante un'italianizzazione sempre piú efficace e pervasiva.
    Che cosa, invece, in sostanza, caratterizza la fase attuale della lingua ?
    Tre fatti fondamentali:
    1. la persecuzione attiva nei confronti della lingua sembra essere cessata, ma la situazione venutasi a creare non ci consente proprio di essere scioccamente trionfalistici;
    2. si è creata una discontinuità storica di portata tale che la trasmissione diretta non è piú stata ripresa né sembrano sussistere le condizioni per cui essa possa essere ripristinata;
    3. in parallelo all'assoluta mancanza di tutela della lingua in quanto tale, alla diffusissima misconoscenza della stessa e ad una sostanziale (anche se non piú ostentata) indifferenza all'atto pratico, sono emerse proposte soggettive di lingua, disancorate da una continuità storica e di conformità alla lingua letteraria/urbana.
    La situazione descritta relativamente ad anni ancora recenti non risulta, per altro, essere caratteristica di Genova: essa si è verificata anche nelle altre città italiane ed europee.
    All'estero, prima ancora che da noi.
    Ma, a Genova, a questa situazione, già pesantemente pregiudicata, si è aggiunto un problema ulteriore (come se non ce ne fossero a sufficienza !): la proposta del "similgenovese"... (apparentemente anche con l'avallo di istituzioni preposte, da cui ci si aspetta, in primis, e si auspica la tutela e la promozione della lingua storica, letteraria urbana).
    Ad altre lingue ciò è stato risparmiato.
    Alcuni aspetti di tale proposta che, per scelte avvenute, non consente di rappresentare caratteristiche strutturali della lingua storica, letteraria, urbana, sono giá stati esaminati in altri articoli (clicca qui).
    Il problema è, nel caso di Genova, certamente grave ed implica una responsabilità di fronte alla storia ed alla scienza.
    È troppo ovvio che ognuno è libero di creare la lingua che ritiene ed è, certamente, altrettanto libero di comporre in questa lingua.
    Ciò di cui non si è affatto convinti è che sia corretto attribuire a questa nuova creazione il nobile nome di una lingua, malgrado tutto e tutti, ancora storicamente ed oggettivamente esistente.
    Si è convinti che anche la lingua, sia pure ormai significativamente minoritaria, debba essere tutelata nella propria identità ed integrità, e non solo il basilico. Non è ammissibile appropriarsi della sua denominazione per somministrare altro.
    La scorrettezza, storica e scientifica, si fa ancora piú acuta quando si utilizza una grafia incongrua, cioè non compatibile con quelle di tipologia tradizionale (né con la fonologia della lingua), per riproporre le opere del passato.

    Si producono, cosí, edizioni filologicamente scorrette.

    Storicamente false.

    Scientificamente false.



    Chen e scæn: due origini diverse
    Prima di tutto tentiamo di fare un po' di chiarezza relativamente a due fenomeni linguistici che hanno origini diverse e che si sono verificati cronologicamente a grande distanza temporale:

  • I plurali genovesi con desinenza -en /eN/, quali "chen" /'keN/, "sen" /'seN/, "paizen" /paj'zeN/ (che hanno rispettivamente al singolare le forme "can" it. cane, "san" it. sano, "paizan" it. contadino):
    il prof. Fiorenzo Toso nella sua opera "Storia linguistica della Liguria, vol. 1, Dalle origini al 1528" definisce questa tipologia di plurali come "plurali metatetici" (aggettivo di utilizzo specialistico che indica la derivazione di questo tipo di plurali dal fenomeno linguistico definito metatesi). Si tratta di una parola greca che significa spostamento e, nei casi dei plurali in esame, si riferisce allo spostamento della vocale -i del plurale dalla posizione originaria in finale di parola (dove è rimasta nell'italiano standard) all'interno della parola stessa, generando cosi le forme "cain", "sain" etc... Relativamente al fenomeno linguistico della metatesi ed alle sue successive evoluzioni il testo del Toso fa riferimento ad un articolo del Forner (vedi riquadro). Il Forner dimostra, in sostanza, come, a partire dall'originaria forma "cain", per chiusura del dittongo -ai-, si sia pervenuti all'attuale forma "chen".
    E questo per quanto riguarda l'origine del fenomeno.
    Ma il prof. Toso, sempre nello stesso passaggio della sua opera, fornisce anche informazioni di tipo cronologico e dice che questo tipo di plurali metatetici si affermano a Genova nel XV secolo, cioè nel Quattrocento.

    Werner Forner
    Metatesi, metafonesi o attrazione nei dialetti liguri?
    "L'Italia dialettale", 1975
    38, pagg.77-89: in sintesi
  • a partire da /'kani/ si sarebbe ottenuta per metatesi, cioè per spostamento della vocale /i/ la forma /'kajN/
  • da /'kajN/ si sarebbe passati a /'kEjN/ per assimilazione
  • il dittongo /Ej/ si sarebbe monottongato, cioè ridotto ad un solo timbro vocalico e si sarebbe cosí ottenuta la forma /'kE:N/
  • da /'kE:N/ si sarebbe poi originata la forma /'kEN/, mediante l'accorciamento della vocale da /E:/ a /E/
  • da /'kEN/ si sarebbe infine passati a /'KeN/, per la chiusura del timbro vocalico da /E/ a /e/.
    ancora piú in sintesi:
    kani metatesi kajN assimilazione kEjN monottongazione
    kE:N accorciamento kEN chiusura keN
    Quest'ultima è la forma attuale nonché tradizionale della lingua genovese letteraria/urbana.

  • I singolari e plurali genovesi con desinenza -æn /EN/, dotata cioè di vocale finale aperta, del tipo "scæn" /'skEN/ (it. gradino e scalino), "Mænn-a" /'mENNa/ (it. [sestiere della] Marina), "fænn-a" /'fENNa/ (it. farina) etc...
    L'origine di quest'altro fenomeno linguistico va ricercata nella caduta urbana di "r" intervocalica che ha originato "scæn", "Mænn-a", "fænn-a", dagli originari "scarin" /Ska'RiN/, "farinna" /fa'RiNna/, "Marinna" /ma'RiNna/.
    Bene, sempre il prof. Toso, in un'opera edita nell'anno 1996 da "A Compagna" ed il cui titolo è "Trionfo dro popolo zeneise", alla pag.24 afferma che la "r" tra vocali è "scomparsa definitivamente dalla pronuncia in maniera generalizzata solo agli inizi del secolo XIX." cioè agli inizi dell'Ottocento.
    (Evidentemente, il prof. Toso si riferisce, nel passaggio citato, alla pronuncia urbana, dal momento che, al di fuori dell'ambito urbano, la Liguria presenta ancora zone a pronuncia arcaica, dotate di "r" intervocalica conservata).

    In definitiva, quindi, ci si trova di fronte a
    due fenomeni linguistici diversi con cause ed origini differenti:

    • il primo attribuito a metatesi, cioè a spostamento della vocale "i" finale all'interno del corpo della parola;
    • il secondo dovuto invece all'eliminazione della "r" intervocalica, avvenuta in ambito urbano.
    Due fenomeni linguistici DISTINTI, si ripete, verificatisi, inoltre, secondo le affermazioni dello stesso prof. Toso, alla distanza temporale di almeno 3 secoli (Quattrocento - Ottocento: piú di 300 anni !!!). Non c'è da meravigliarsi che il fenomeno piú antico (metatesi da sain" a "sen" etc...), oltre ad aver causato la monottongazione, cioè la riduzione ad un solo timbro vocalico "e" a partire dall'originario dittongo "ai" abbia anche avuto il tempo storico sufficiente a chiudere la pronuncia della "e" derivata dal suddetto dittongo, come è norma della "e" genovese (di qualsiasi origine) seguita da consonante nasale. Relativamente a questa norma della pronuncia della lingua letteraria/urbana genovese si cita il Parodi (vedi riquadro).

    Ernesto Giacomo Parodi
    Studj Liguri
    Il dialetto di Genova dal sec.XVI ai giorni nostri
    Archivio glottologico italiano, XVI, 1902-1905

    Nota: per ragioni di uniformitá col resto dell'articolo, la grafia fonetica utilizzata dal Parodi è stata sostituita con la grafia "in U" tra virgolette e con la grafia fonetica /SAMPA/ tra barrette.

    pag.111 §13
    /e/ [chiusa] sempre davanti a /n/, /N/, /m/: "cadenn-a" /ka'deNNa/ (it. catena) , "sen" /'seN/ (it. sereno), "seren" /se'reN/ (it. sereno) [piú italianizzato], "çénnie" /'sennje/ (it. cenere), "sen" /'seN/ (it. seno) etc...
    pag.115 §19
    "éndegu" /'eNdegu/ (it. indaco), "éndexu*" /'eNdeZu/ (it. indice guardanido), "énbrexu**" /'eNbreZu/ (it. embrice), "strenze" /'streNze/ (it. stringere), "tenze" /'teNze/ (it. tingere), "çenta" /'seNta/ (it. cintola), "cumensu" /ku'mensu/ (it. [io] incomincio) etc..."
    pag.122 §42:
    /e/ [chiusa] davanti a -n o -nc [= n seguita da consonante]: "centu" /'tSeNtu/ (it. pianto), "grendi" /'greNdi/ (it. grandi), "chen" /'keN/ (it. cani) "
    mentre a pag.123 §47 si hanno:
    "mæn" /'mEN/ (it. marino), "mænn-a" /'mENNa/ (it. marina), "fænn-a" /'fENNa/ (it. farina)
    * L'"endexu" (a parte la traduzione in italiano ancora ottocentesco del Parodi) era un guscio d'uovo o un oggetto a forma d'uovo che veniva posto nel nido, costituito da un cesto od altro, per indicare alle galline dove deporre le uova e semplificarne, di conseguenza, la raccolta. Funzionava veramente?...
    ** L'"enbrexu" era la tegola piana, ma, assai piú frequentemente, in un ambito di cultura materiale in cui i tetti erano ricoperti da "ciappe" regolari, cioè lastre di ardesia, ma anche da vere e proprie pietre estratte da apposite cave e grossolanamente squadrate ("ciappe sarvæghe"), significava semplicemente "focolare", cioè, un'area in pietra dai bordi poco rialzati, tipicamente di forma rettangolare, dove veniva acceso il fuoco.
    Questo scenario, ormai scomparso anche nelle zone piú relegate della Liguria, prevedeva la cottura di cibi in paioli sospesi a catene di ferro.
    In seguito, di solito nello stesso spazio, venne installata la stufa di ghisa, tuttora presente in alcune zone rurali.

    Al contrario, nel fenomeno storicamente piú recente, che ha originato le forme attuali "scæn", "Mænn-a" e "fænn-a" dalle rispettive forme antiche "scarin" /Ska'RiN/, "farinna" /fa'RiNna/, "Marinna" /ma'RiNna/, il dittongo /aj/, generato a partire dalla caduta di /R/ intervocalica, è riuscito a monottongarsi, a divenire cioè un solo timbro vocalico (una vocale sola che è una /E/ aperta e breve), ma non ha ancora chiuso il timbro della vocale /E/, che è rimasta aperta, per eccezione e

    ha richiesto alle grafie di tipologia tradizionale l'adozione del digramma "æ"
    per denotare l'eccezionalitá della pronuncia aperta della vocale /E/ di "scæn", "Mænn-a" e "fænn-a", nonostante essa sia seguita da una consonante nasale.

    Era un uso eccezionale che denotava una deroga a una situazione di pronuncia chiusa di "e" seguita da consonante nasale, tanto che il digramma "æ", a sua volta, derogava ad una delle sue caratteristiche proprie: infatti, nelle grafie tradizionali il digramma "æ" implica una /E:/ aperta e lunga;
    in "scæn", "Mænn-a" e "fænn-a", invece le vocali sono brevi.

    Gian Carlo Ageno
    Studi sul dialetto genovese
    Studi Genuensi, 1957
    pag.33
    E tonica innanzi a consonante nasale semplice in sillaba radicale o in desinenze.
    Innanzi a n faucale (/N/) è breve. Abbiamo "ben" /'beN/, "teren" /te'reN/.
    1. "cadenn-a" /ka'deNNa/, "venn-a" /'veNNa/, "senn-a" /'seNNa/, "seren" /se'reN/, "fren" /freN/ etc.
    2. -en /eN/, tanto in monosillabi quanto in desinenza tonica di polisillabi, corrisponde alla desinenza plurale di sostantivi od aggettivi che al singolare hanno la desinenza -an /aN/.
      1. Abbiamo "chen" /'keN/, "cen" /t'SeN/, "gren" /'greN/, "muen" /'mweN/, "puen" /pweN/, "sen" /'seN/ , plurali di "can" /'kaN/ (it. cane), "cian" /'tSaN/ (it. piano), "gran" /'graN/ (it. grano), "man" /'maN/ (it. mano), "pan" /'paN/ (it. pane), "san" /'saN/ (it. sano).
      2. Il plurale maschile dei sostantivi ed aggettivi con la desinenza singolare -an. Abbiamo: "lunten" /luN'teN/ (it. lontani), "paizen" /paj'zen/ (it. paesani), "vilen" /vi'leN/ (it. villani), "munten" /muN'teN/ (it. montani), "crestien" /kre'stjeN/ (it. cristiani), "Tuschen" /tu'skeN/ (it. Toscani), "Italien" /ita'ljeN/ (it. Italiani).

    La riprova ulteriore che le grafie di tipo tradizionale adottarono il digramma "æ" per denotare l'eccezionalitá della pronuncia aperta, laddove la norma generale implica e richiede pronuncia chiusa (e non giá per reminiscenza dell'antico dittongo -ai) consiste nel fatto che le grafie tradizionali utilizzano la semplice vocale "e" (e non giá il digramma "æ") in tutti i casi quali "chen", "sen", "paisen" etc... in cui l'origine storica consisteva sí in un dittongo, ma in cui la pronuncia era regolarmente chiusa e non necessitava di un'esplicita indicazione di irregolaritá rispetto alla norma del linguaggio letterario/urbano.



    La grafia "in cæn"
    L'innovazione di grafare "cæn" per "chen", come prescritto dal prof. Toso nella sua "Grammatica del genovese" (vedi riquadro), è immotivata e scorretta, dal momento che essa apparentemente unifica due fenomeni linguistici ben distinti (geneticamente e cronologicamente), e falsa la realtá fonetica oggettiva della lingua letteraria/urbana genovese, la quale ha sempre tenuto accuratamente distinte le due serie:
    chen/scæn, sen/Mænn-a, paizen/fænn-a.
    L'innovazione sopracitata, inoltre, mostra la mancata comprensione del fatto che nella lingua letteraria/urbana genovese l'adozione del digramma "æ" precedente la consonante "n" è, comunque, da essere considerato come un'eccezione. Infatti, la norma prevede sempre /e/ chiusa davanti a consonante nasale, indipendentemente dalla sua origine, come ampiamente dimostrato dagli esempi riferiti dal Parodi (vedi riquadro).

    Anche l'eventuale ipotesi che la grafia "cæn" possa risultare una forma mutuata da una variante linguistica non urbana, che tenesse ancora in qualche modo memoria, tramite una pronuncia di /E/ aperta, del dittongo originario, risulta essere palesemente contraddetta dalla stessa grammatica del prof. Toso che prescrive che la "e" sia pronunciata sempre aperta davanti ad "n", anche laddove non c'è mai stato nessun dittongo (!!!), cioè anche in parole come "fen" (=it. fieno) e "ben" (=it. bene).
    Tutto ciò palesemente in contrasto con la lingua letteraria/urbana genovese, le testimonianze degli autori, tra cui quelle del Parodi e del Casaccia (vedi riquadro), e le verifiche che ognuno puo effettuare (con poco sforzo) presso i parlanti della varietá letteraria/urbana.
    Giovanni Casaccia
    Vocabolario genovese italiano
    Pagano, Genova, 1851
    DELLA FORMAZIONE DEL PLURALE DE' NOMI.
    [...]Quando poi finirà [...] per la consonante n, allora si varierà come segue:
  • an si cangerà in en con l'e stretta, come: Can, cane; chen, cani; Tian, tegame; tien, tegami; Villan, villano; villen, villani.

  • Quindi se c'è stata ispirazione ad una varietá linguistica dotata di pronunce aperte quali /'fEN/, /'bEN/ etc. , non c'è motivo di attribuire a codesta varietá linguistica nessuna sensibilitá differenziale rispetto ad un antico dittongo, perché questa sensibilitá semplicemente non esiste. Si tratterebbe, infatti, semplicemente di una varietá linguistica che pronuncia aperta la vocale "e" davanti a consonante nasale. E ciò indipendentemente dall'origine della vocale. E, quindi, se si dovesse assumere come valida questa nuova norma (e non se ne comprende davvero la ragione) che prescrive di pronunciare tanto "cæn" che "ben" con la vocale /E/ aperta (il che, si badi, a Genova è scorretto), allora non si vede perché "cæn" e "ben" dovrebbero essere grafati in modo diverso.

    Perché allora oltre a "cæn" non scrivere anche
    "bæn", "vænto", "terræn", "ma se ghe pænso" ...
    se la pronuncia prescritta fosse davvero identica per tutte queste parole?

    Senza considerare, poi, che il digramma "æ", nella grammatica del prof. Toso, è definito essere di quantitá lunga, sebbene "chen", "ben" etc. (anche se si accettasse di pronunciarli con la "e" aperta) non abbiano certamente la caratteristica della vocale lunga.

    Il vero problema si presenta se ci si allontana dalla lingua letteraria/urbana, che possiede una tradizione scritta, in tutte le sue evoluzioni, anche recenti, dalla quale si puo desumere con chiarezza anche la relativa pronuncia (questo a patto di esercitare un minimo sforzo di corretta ed affidabile interpretazione).

    Perché mai si dovrebbe ripudiare la certezza (si oserebbe dire scientifica) della tradizione della lingua letteraria ed adottare norme soggettive?

    Per accogliere quale standard relativo a quale parlata?

    Su quali basi scientifiche, statistiche?

    Forse perché "cæn" /kEN/ fa parte della parlata di chi formula la prescrizione?

    E allora perché anche chi si adegua alle prescrizioni della grafia "in cæn", mantiene però immutata la propria pronuncia con la "e" chiusa, che si puó, essendo interessati, ascoltare registrata anche sul Web?

    Ma, allora chi pronuncia le vocali "e" toniche aperte (e questa tipologia di pronuncia certamente esiste e possiede le proprie aree di diffusione, anche se non puo essere definita né letteraria né urbana) e dice "baccættu", "briccættu", anzi meglio, "bacættu", "bricættu" etc... dovrebbe godere di minore considerazione di chi intende invece prescrivere pronunce del tipo "cæn", "bæn", "væntu", "terræn", "ma se ghe pænsu" etc... molto probabilmente perché non ha mai scritto né mai scriverá una grammatica?
    Per quale ragione mai?
    Evidentemente la non-letteraria e non-urbana pronuncia "bacættu", "bricættu" (invece di "bachettu" /ba'kettu/ = it. bastoncino e "brichettu" /bri'kettu/ = it. fiammifero) non può valere meno della non-letteraria e non-urbana pronuncia "cæn", "bæn", "væntu", "terræn", "ma se ghe pænsu" etc...

    L'aspetto ci condurrebbe assai lontano e dovrebbe necessariamente includere il tema della scarsa conoscenza della lingua ligure nel suo complesso. Quando, tempo addietro, si sarebbe potuta riscontrare abbondanza di informatori genuini ed affidabili, non vennero effettuati - siamo sinceri - ricerche esaustive su tutto il territorio. Oggi - cerchiamo di essere altrettanto sinceri - esistono fondati dubbi, data la globale decadenza della lingua (non solo in ambito urbano) e l'evidente difficoltá che si riscontra a coglierne gli aspetti strutturali, sull'affidabilitá degli informatori e di eventuali ricercatori.
    Se, poi, invece, si ritorna a considerare una lingua non piú effettivamente parlata, ma ridotta ad una lingua di fiction o "da sussidi", il discorso cambia ancora.

    Fiorenzo Toso
    Grammatica del genovese
    Le Mani, Recco, 1997
    pag.20 n.23 Distribuzione e pronuncia delle vocali: particolaritá
    [...] in sillaba chiusa da [ň] e [r] compare solo [è]: vende [vèňde] 'vendere', verso [vèrsu] 'verso; [...]
    pag.28 n.8 Accento fonico e accento tonico
    [...] Mediante l'accento fonico, in particolare, la è [si pronuncia] aperta [è] (vèndilo [vèňdilu] 'venderlo') [...]
    pag.33 n.28 Vocali
    [...] il suono lungo di e aperta [ề] è reso con æ. Come si è visto, quando sulla e va segnato l'accento tonico, esso è grave per la e aperta (èndego [èňdegu] 'indaco', èmbrexo [èňbrezu] 'embrice')[...]
    pag.55 n.39. Nomi che terminano in -n
    I nomi maschili in -an assumono al plurale la desinenza -æn: villan [viláň] 'contadino' / villæn [vilềň], can [káň] 'cane' / cæn [kềň] 'cani', guardian [gwardiáň] 'guardiano' / guardiæn [gwardiềň] 'guardiani'.
    n.40. Fa eccezione pan [páň] 'pane' il cui plurale è poæn [pwềň] 'pani'. Il nome femminile a man [a máň] 'la mano' ha il plurale e moæn [e mwềň] 'le mani' [...].



    Il caso del "Trionfo dro popolo zeneise"
    Si conclude a questo punto l'argomento generale e si prende in considerazione, in pratica, una situazione puntuale in cui è stata adottata la grafia "in cæn". Ciò allo scopo di potersi rendere direttamente conto di quanto questa scelta grafica falsi il testo tramandato e di come renda in modo infedele la realtá della lingua letteraria relativamente agli aspetti finora esaminati. Si procederá esaminando coppie di versi presenti nel volume citato "Trionfo dro popolo zeneise" edito nel 1996 da "a Compagna" a cura del prof. Toso utilizzando la grafia "in cæn". Si tratta di versi tradizionali, cioè rimati, e anche l'aspetto della rima aiuterá a meglio comprendere l'inadeguatezza e l'infedeltá della grafia proposta per rappresentare la lingua letteraria/urbana. Si avverte che le coppie di versi vengono proposte secondo l'esposizione logica che si intende perseguire e non nel loro ordine consecutivo.

    Le coppie di versi presi in considerazione sono le seguenti:

    versi 1165-1166:

     Ma ri çittadin e bravi paisæn 
      Per contrastaghe un parmo de terren 

    Giá questa coppia di versi denuncia, a motivo della mancata rima, l'incongruenza e la scorrettezza della grafia di cui si tratta ai fini della descrizione della lingua genovese letteraria/urbana. Infatti, "paisæn", che implicherebbe, se cosí grafato, la pronuncia di /E/ aperta (mentre l'ha chiusa), non può rimare con "terren", che si pronuncia con l'/e/ chiusa, esattamente come nell'italiano standard. Per altro, non ci si stanca di ribadirlo, la pronuncia genovese letteraria corretta e /paj'zeN/, con la /e/ chiusa.


    versi 223-224:

     E inveninae comme ri fieri cæn 
      Ommi e donne ammasson, marotti e sæn. 

    Questa coppia di versi è apparentemente consistente, perché fa rimare "cæn" con "sæn", ma la tragicitá della scena che il poeta, forse non sublime, ma certamente patriota, intende evocare, è guastata dalla risibilitá, per un orecchio urbano, di pronunce quali "cæn" /'kEN/ e "sæn" /'sEN/ , con le /E/ aperte. E, infatti, la pronuncia letteraria/urbana prevede "chen" /'keN/ e "sen" /'seN/ con le /e/ chiuse.
    ("inveninæ" significa letteralmente "avvelenati", dal sostantivo "venin" /ve'niN/ = it. "veleno", mentre "ammasson" è l'antico passato remoto, cioè "ammazzarono")


    versi 443-444:

     E intr'un momento ri Portoriæn 
      De San Steva afferron ri grosci poæn  

    Esattamente la stessa situazione della coppia di versi precedente: anche qui "Portoriæn" è in realtá "Portorien" (con la /e/ chiusa), e la pronuncia nonché la grafia classica del plurale di "pan" é "poen" /'pweN/, sempre con la /e/ chiusa, ovviamente.
    (Per chiarezza di chi legge i "pani di Santo Stefano" sono le pietre: evidentemente il poeta fa riferimento al martirio del santo, avvenuto mediante lapidazione).


    versi 1101-1102:

     Á vista de ra strage ri Allemæn 
      Dra giustiçia raxon rotto ro fren, 

    Qui risalta l'anomalia della parola "Allemæn" (forma aulica per "Tedeschi" ) che ovviamente non può rimare con "fren". "Alleman" non è e non era una parola dell'uso comune, si direbbe e si sarebbe detto "Tedescu", ma dovendola pronunciare al plurale si avrebbe certamente "Allemen" /alle'meN/ con la /e/ chiusa.

  • nel manoscritto originale non vi sono -æn, tutte le desinenze sono scritte -en.
  • "ro, ra, ri" sono le forme antiche dell'articolo determinativo; "dra" corrisponde all'italiano "della".

  • Il caso rappresentato dalla sopraccitata edizione del "Trionfo dro popolo zeneise", per altro, non risulta certamente uno dei peggiori. Infatti, nonostante risulti utilizzata (come ampiamente dimostrato) una grafia scorretta e inadeguata rispetto all'obiettivo di trascrizione della lingua genovese letteraria, se non altro, nelle note viene quasi sempre riportata la grafia originale con le tutte le desinenze in -en anziché -æn (paisen/terren, chen/sen, Portorien/poen, Allemen/fren) dalle quali si puo ancora desumere che la pronuncia corretta prevedeva e prevede vocali /e/ chiuse. Dunque, un esame attento di questo apparato di note riesce ancora a svelare

    la contraddizione e l'inconsistenza della grafia adottata,
    una grafia inappropriata e che induce il lettore in errore.

    Non però cosí in altre opere edite, che forniscono al lettore una mistificazione grafica che falsa le caratteristiche specifiche e l'essenza propria della lingua letteraria/urbana e della sua pronuncia.

    Trionfo dro popolo zeneise
    A Compagna, 1996
    Introduzione, edizione, note e glossario a cura di Fiorenzo Toso

    pag.3 n.4 "Il digramma æ si legge come una e aperta e lunga"
    pag.3 n.5 "La e è in genere chiusa, ma davanti a -nn, -r, nei dittonghi e quando sia sovrastata dall'accento grave è sempre aperta.


    Al punto 4 il prof. Toso si contraddice esplicitamente dal momento che utilizza poi il digramma stesso in parole che egli grafa quali "cæn in cui la vocale "e" è chiusa e breve.

    Al punto 5 invece fornisce una contraddizione totale rispetto alla fonetica del genovese letterario urbano. Sorvoliamo pure sull'indicazione relativa all'accento grave. È evidente che non si tratta di una caratteristica strutturale della lingua: se viene posto in modo scorretto (come è scorretta la grafia "cæn") si commette ovviamente un errore ma la lingua permane, fortunatamente, quella che è. Risulta invece manifestamente infondata (anche se esorbita dai limiti della trattazione del presente articolo) l'affermazione che in genovese la vocale "e" sia aperta nei dittonghi.
    L'antico dittongo ascendente /je/, presente in parole come "nievu" /'nje:vu/ per "nevu" /'ne:vu/ (= it. nipote) è da secoli disusato in cittá, ma la pronuncia della vocale "e" era chiusa, come fanno fede le poche localitá che tuttora l'adottano.
    Nell'attuale genovese è rimasto solo il dittongo discendente /ej/ che si riscontra in parole quali "reixe" /'rejZe/ (= it. radice), "meistru" /'mejstru/ (= it. maestro), "pei" /'pej/ (= it. pelo/peli/pero/pera), "mei" /'mej/ (= it. melo/mela), "cheitu" /'kejtu/ (= it. caduto) etc.: qualunque ne sia l'origine esso ha sempre la pronuncia di "e" chiusa.

    In conclusione il dittongo /je:/ prevedeva "e" chiusa, ma in cittá non esiste piú.
    Esiste invece il dittongo /ej/ e si pronuncia sempre con la "e" chiusa.

    MAGISTER
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