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Cultori e locutori

Si tratta di definizioni utili a comprendere la situazione attuale del genovese e ad approfondire posizioni diverse, talora contrastanti, relativamente alla lingua.
Infatti, a proposito del "genovese attuale", c'è, davvero, ancora, qualcuno, a Genova, che parla genovese ai figli piccoli e lo usa in famiglia in modo abituale o non siamo, piuttosto, ormai, giunti, da tempo, ad una situazione in cui, piú che altro, vi sono alcuni cultori del genovese piuttosto che dei veri locutori (rimasti in numero molto esiguo e di età assai avanzata)?

Chi definiremmo come veri locutori?

Tipicamente, persone che usavano la lingua (per davvero) in famiglia, coi figli e nelle relazioni sociali a molti livelli.
Persone che, a loro volta, avevano appreso la lingua in famiglia, in età infantile, con modalità totalmente naturali e spontanee.
Persone che avevano un'ottima competenza e padronanza della lingua e che, normalmente, scrivevano unicamente in italiano standard, senza porsi eccessivi problemi di grafie del genovese od altro.
Persone che leggevano anche, saltuariamente, qualcosa scritto in genovese, ma che, anche se le grafie tradizionali risultavano antiquate o inadeguate, sopperivano mediante la loro personale conoscenza della lingua.
Questa conoscenza li rendeva liberi dalle incongruenze grafiche ed il realismo ed il pragmatismo di cui erano permeati non li conduceva a prevedere come possibile né a considerare l'uso scritto della lingua se non per obiettivi lirici (cioè, poetici) o di canzoni o rappresentazioni teatrali.

Oggi, la situazione oggettiva è che gli ultimi veri locutori stanno scomparendo, hanno in gran parte i giorni contati.
Molti di essi avevano, tempo addietro, deciso coscientemente di non tramandare la propria lingua.
Oggi invece si constata la presenza di un ristretto numero di cultori della lingua di diverse origini e provenienze: in previsione di una nuova alba o di un luminoso e straziante e definitivo tramonto?

Chi avrà vita vedrà.

I cultori hanno approcciato la lingua in ambienti diversi da quelli precedentemente descritti e questo fatto ha reso, inevitabilmente, diverse le loro modalità di apprendimento (vocabolari, grammatiche) e, fondamentalmente, la loro sensibilità.
Risulta altresí chiaro che le persone che abbiamo definito come ultimi veri locutori ed i cultori non possono condividere le stesse motivazioni, gli stessi obiettivi.
Sono due posizioni, entrambe, intrise di aspetti romantici.
Spero che nessuno me ne voglia per l'adozione di questo aggettivo, certamente improprio.
Ma non sono in grado di identificarne altri e, d'altronde, l'utilizzo in accezione positiva.
È evidente che la posizione degli ultimi veri locutori è intrisa di "storica nostalgia".
Loro hanno, sul serio, parlato e vissuto la lingua genovese in un momento in cui essa possedeva ancora caratteristiche di vitalità e condivisione.
Magari, a motivo dell'ambiente circostante e dell'attuale cultura, non la usano piú con modalità totalizzanti, ma la conoscono ancora con totale e diretta padronanza.
Loro, finché vivranno, se pure non parlandola sempre, non riuscirebbero piú a dimenticare la vera lingua storica o a deformarla.
Appare chiaro che questo loro vissuto storico, che la gran parte dei cultori non ha potuto condividere, li induce ad essere esigenti, precisi nella proposta della lingua.
Perché essi si rifanno ad un'oggettività storica ineludibile, che è effettivamente esistita , che essi ben rammentano e non accettano che possa essere deturpata, "balbettata" (pronuncia), "imbrattata" (grafia).
Anche nei cultori, a mio avviso, è presente una componente "romantica", un "sogno", forse piú proteso verso il futuro rispetto alla "nostalgia" degli ultimi veri locutori.
Pur se l'atteggiamento dei cultori appare, talora, meno rivolto e meno attento ad una continuità e ad un'aderenza storica della lingua, di cui alcuni di loro non possiedono, inevitabilmente, le competenze ed il "vissuto" degli "ultimi veri locutori", si tratta, pur sempre, anche nella loro situazione, di una nobile sfida alla storia.
Almeno, relativamente al genovese.

Ma può vivere una lingua, ha senso proporla in assenza, ormai quasi raggiunta,
di locutori reali e di un ambiente che la richieda viva
o risulti essere in grado di poterla tramandare viva?

Questa enunciazione, pur sintetica, del problema è qualcosa di piú di una semplice affermazione o domanda: in essa è già contenuta una buona parte dell'analisi della situazione.
Se la "tradizione", che significa - dal latino - "consegna", nel nostro caso, della lingua, si è ormai, sostanzialmente interrotta e perduta come trasmissione diretta in seno alle famiglie da piú generazioni, non c'è insegnamento scolastico che tenga.

Non si può nemmeno affrontare il sogno dei cultori con la sola scuola.

In Irlanda, nelle scuole, si insegna anche irlandese. Vi si dedicano non poche ore, dacché l'Irlanda si rese indipendente dalla corona britannica e l'irlandese venne dichiarato lingua nazionale.
Da allora, sul suolo dell'isola, sono passate molte generazioni di uomini.
Quasi nessuno parla piú irlandese in Irlanda.
Andateci, se avete dei dubbi, l'isola merita, al di là dei motivi linguistici.
E nessuno, certamente, lo parla a motivo della frequenza scolastica.
È rimasto, parlato a livello dialettale, per tradizione, da qualche vecchio, in ambienti rurali dell'isola.
L'inglese regna sovrano.
Ciò significa che la lingua inglese aveva già vinto la sua battaglia, ben prima che fosse stata ottenuta l'indipendenza e fossero istituite le ore d'irlandese nelle scuole.

Ma non occorre andare tanto lontano.
Nel principato di Monaco il monegasco (significativamente affine alla parlata di Ventimiglia) si è estinto nell'ultimo dopoguerra. Ho avuto occasione di conoscere personalmente uno degli ultimi parlanti "nativi", forse proprio l'ultimo, defunto da qualche tempo. Si trattava di un prete. Si chiamava l'abbé Franzi.
L'intercomprensione con chi, di media cultura, parlasse il genovese era, evidentemente, assai buona, anche se non proprio totale.
Ora, il monegasco è insegnato nelle scuole.
Nessuno piú lo sa né lo parla, né in famiglia né, tanto meno, in pubblico.
Andate a Monaco. Chi lo sa può provare a parlare in genovese: dubito venga compreso.
Ma il massimo che potrebbe fare un Monegasco (a parte il fatto che, evidentemente, è piú facile avere a che fare con Italiani o con stranieri che con gli abitanti "locali") che riuscisse un po' a capire (e non se ne troverebbero, certamente, molti) sarebbe di rispondervi in francese, non per scortesia o sprezzo delle "lingue locali", semplicemente, perché quella che, secondo l'ordinamento scolastico, dovrebbe essere la "loro propria lingua nazionale" i monegaschi attuali, ormai, non la conoscono proprio né l'hanno mai parlata.

In conclusione,
se i bambini non hanno piú opportunità di apprendere nell'ambiente domestico e non sentono né in esso né all'esterno il genovese, ma, anzi, avvertono (ed in ciò i bambini sono "inesorabili") che non gli viene riconosciuta alcuna importanza a livello sociale, quale mai interesse o motivazione potrebbero avere per apprendere la lingua?
E se i cultori condividono, quasi totalmente, un ambiente domestico simile a quello da cui provengono i potenziali allievi, l'assenza di soluzione del problema posto appare praticamente inevitabile, scontata.

24/10/2001
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